Dell’ambasciatore Stefano Benazzo subito si scorge la personalità densa di sfaccettature. In lui il percorso del diplomatico e quello dell’artista o ricercatore si intrecciano. Dopo i primi lavori giornalistici e il grado di sottotenente di complemento degli Alpini nel 1972, vince nel 1974 il concorso al Ministero degli Affari Esteri e viene destinato alle ambasciate di Bonn (1976-1980), Mosca (1980-1983 e 1989-1993) e Washington (1986-1989 e 1996-2001), per poi ricoprire il ruolo di ambasciatore d’Italia in Bielorussia (2001-2003) e Bulgaria (2008-2012). È stato inoltre consigliere diplomatico aggiunto del Presidente della Repubblica e ispettore del Ministero e degli Uffici all’Estero. Fin da giovane coltiva la passione per la fotografia, è scultore figurativo e non, modellista in ambito navale, automobilistico, motociclistico, ferroviario e architettonico, nonché esperto velista. Ama i relitti spiaggiati e le solitudini possenti che li avvolgono, storie perdute che Benazzo recupera facendole rivivere in ritratti fotografici peculiari.
Ambasciatore Benazzo, dalla carriera diplomatica terminata nel 2012 all’attività di modellista e scultore, sino ad arrivare alla ricerca dei relitti spiaggiati, sparsi per il mondo… Ha anche curato libri in merito e oltre 50 mostre personali in Italia e all’estero. Diversi profili in una sola persona?
“Ho cominciato a costruire modelli navali nel 1963, a navigare nel 1964 ed a fotografare nel 1969. Quindi, dopo un intermezzo di 50 anni dedicato dal 1969 al 2012 al servizio militare, al lavoro come giornalista ed alla Carriera diplomatica, ho ripreso a fare alcune delle cose che amo. Convinto dell’importanza del Dovere di Memoria nei confronti di costruttori e marinai, ho dedicato tempo ed energia alla fotografia di relitti spiaggiati sulle coste del mondo, ritraendone più di 500 in più di venti paesi. Inoltre, poiché sono convinto di avere contribuito, in un’altra vita, alla costruzione di cattedrali, mi è venuto naturale costruire venti modelli architettonici di chiese, edifici di culto e edifici storici, che ho esposto a varie riprese; anche qui, mi spinge il Dovere di Memoria nei confronti di costruttori e fedeli.
Sto del resto cercando un museo disposto ad accogliere i miei modelli, per non vederli sparpagliati o distrutti quando non ci sarò più. Infine, mi dedico alla salvaguardia dei treni storici nel mondo presiedendo un’associazione internazionale. Per rispondere alla domanda, nessuno ha un solo profilo o un’unica caratteristica; ciò che conta è trovare delle passioni che integrino a vicenda e completino i nostri profili; è essenziale che ciascuno si interroghi su ciò che sa fare meglio (compreso il lavoro) e cerchi di mettere in opera le proprie capacità, cambiando ed alternando attività ed interessi al fine di crescere ed offrire agli altri momenti di bellezza e/o di riflessione”.
I relitti con le storie che richiamano. In che modo si consolida la passione per questi monumenti del mare?
“La mia ricerca fotografica sui relitti spiaggiati sulle coste del mondo – basata su passione, emozione e memoria – è dedicata all’eredità virtuale lasciata dagli uomini di mare – in gran parte sconosciuti – in secoli di navigazione. Inizialmente, mi limitavo a fotografare relitti spiaggiati e ardui da trovare: viaggi complessi, in posti difficili da raggiungere: i relitti si trovano infatti dove mancano uomini, capitali, strade, utilizzo del materiale di risulta. Poi mi sono reso conto che questi relitti parlavano e mi raccontavano le loro storie e le storie di coloro che erano a bordo; pertanto, nel 2021 ho pubblicato in Francia un libro composto da 46 racconti fattimi dai relitti; non il libro di un uomo su una nave, quindi, ma navi e barche che raccontano le storie degli uomini a bordo; non credo che nessuno abbia mai scelto di cedere il ruolo di scrittore ad una nave… io sono solo lo scrivano. I relitti muoiono soli e senza assistenza, ci si occupa raramente di loro, essi vanno incontro ad una morte lenta e silenziosa; meritano attenzione, simpatia e rispetto”.
Quali i luoghi che ha esplorato andando alla ricerca di relitti?
“Fuori dall’Europa, le aree in cui mi sono recato (unicamente) per fotografare relitti spiaggiati: Canada, Stati Uniti, Argentina, Cile, Perù, Caraibi, Georgia del Sud e Malvine, Mauritania, Namibia; inoltre, tanti paesi europei; persino in Italia si trovano ancora dei relitti. Tuttavia, non ho fotografato Costa Concordia: è stata una tragedia, non un relitto. Il prossimo viaggio: in Australia, uno dei miei sogni (per i suoi relitti spiaggiati) da anni. Le mie foto più significative sono nel mio sito: www.stefanobenazzo.it. Benché nessuna figura umana appaia mai nei miei scatti, le mie immagini testimoniano simbolicamente il coraggio, i fallimenti e le sofferenze degli uomini, ed esprimono la mia compassione nei confronti di coloro che hanno sperimentato la paura mentre lavoravano, navigavano e combattevano per mare”.
La scelta delle imbarcazioni da fotografare e i modi per raggiungerle. Che cosa ci dice?
“Dispongo di un nutritissimo data-base: se trovo la possibilità di recarmi in una certa area, dispongo già di una scelta su cui orientarmi; inoltre, segnalazioni di amici, articoli, siti specializzati, marinai del posto, capitanerie di porto, guardia costiera, carte nautiche, ecc.; da non tralasciare i locali: quando si rendono conto che ciò che mi spinge è il Dovere di Memoria, danno fondo ai loro ricordi e mi segnalano relitti ignoti. Il fatto che i ‘miei’ relitti si trovino su spiagge inospitali non facilita il mio compito: spesso esse sono irraggiungibili via terra; mi è capitato di andarci in canoa, a piedi, in fuori strada, in gommone, in barca a vela (in Atlantico meridionale); queste ricerche possono essere faticose, talvolta pericolose, spesso solitarie”.
Veniamo al suo percorso diplomatico. È stato destinato tra le altre cose alle ambasciate di Washington, Bonn e Mosca, e successivamente ha ricoperto il ruolo di ambasciatore in Bielorussia e Bulgaria. Un bilancio?
“Ho avuto la fortuna di ottenere sempre le sedi in cui chiedevo di andare in missione. Ho quindi passato quasi otto anni a Washington, e quasi altrettanti a Mosca. Sono felice del mio percorso professionale ma, se mi devo riferire a ciò che succede intorno a noi, il bilancio non è entusiasmante: se confronto le speranze che avevamo in Italia, in Europa e nel mondo cinquanta anni fa con le prospettive attuali, mi chiedo spesso (e purtroppo conosco le risposte) dove abbiamo sbagliato; non è mai tardi per porre rimedio agli errori. Ma non si tratta di trovare soluzioni a breve termine, bensì di cambiare (ed è quindi essenziale il ruolo della famiglia e della scuola) i nostri modi di prendere coscienza di noi stessi, degli altri, di considerare lo sviluppo scientifico, l’intelligenza artificiale, l’ambiente. Ma non sono un tuttologo, quindi mi fermo qui; tuttavia, la ricerca dentro ciascuno di noi non dovrebbe fermarsi mai”.
L’Italia nel mondo. Come viene visto il nostro Paese all’estero?
“A parte l’ovvio apprezzamento per quello che il Rinascimento rappresenta nella storia, insieme a tutte le forme d’arte, alla cucina, alle innumerevoli bellezze naturali, molti considerano il nostro Paese come un punto nodale della civiltà, come la Grecia antica; se un tempo gli stranieri facevano il Grand Tour per familiarizzarsi con la cultura italiana, molti pensano oggi all’Italia (o decidono di visitarla, di imparare l’italiano, di ascoltare l’opera, di investire, di utilizzare espressioni in italiano, ecc.) come ad un elemento irrinunciabile nella loro visione del mondo. Purtroppo non sempre riusciamo a canalizzare, ad integrare, a lavorare in comune per presentarci in modo forte ed univoco, disperdendoci invece in molteplici rivoli locali, partitici, in interessi dei singoli o in discipline artistiche non coordinate: in fondo, abbiamo inventato noi il termine ‘Campanilismo’”.
In periodo di Guerra fredda ha prestato servizio sia a Mosca che a Washington, oltre che a Bonn. Che cosa ricorda particolarmente di queste esperienze?
“Ricordo con rammarico le innumerevoli occasioni mancate (da parte di attori italiani) per tentare di capire le realtà locali, le mentalità, i rispettivi traumi storici secolari, le forze profonde che muovono gli animi; troppo spesso si è cercato di soddisfare le scadenze politiche, economiche, mediatiche più vicine, senza renderci conto che i conti vengono sempre presentati e – come nel caso degli individui – è inutile, anzi controproducente, nascondere i problemi e i punti di crisi sotto al tappeto: vengono sempre alla luce, di solito con maggiore veemenza e pericolo”.
Gli anni in Bielorussia e Bulgaria?
“Non penso sia utile elaborare sull’esperienza fatta in Bielorussia da chiunque vi abbia vissuto all’inizio del secolo: venti anni dopo, ciò che avviene in quel paese è purtroppo sotto gli occhi di tutti. Per quanto concerne la Bulgaria, invece, ho visto un Paese di antica cultura, capace di attuare da secoli la tolleranza religiosa e il rispetto fra le etnie, propenso ad interrogarsi su se stesso e sul proprio passato, convinto di poter fare fronte alle esigenze connesse alla sua appartenenza all’UE ed alla NATO, pronto a partecipare alle sfide dell’economia internazionale, consapevole delle sue molteplici responsabilità”.
La guerra a Est. Da uomo della diplomazia, come valuta la situazione internazionale odierna?
“Purtroppo, non possiamo limitarci a prendere in considerazione solo la guerra in atto in Ucraina. Molteplici sono i fattori di rischio dei focolai che sono esplosi o covano in Africa, in Asia, in Medio Oriente, ecc. Osservo con rammarico come molti governanti non vogliono avere atteggiamenti costruttivi: l’espressione ‘nell’interesse delle generazioni future’ sembra non fare parte della loro coscienza, e tanto meno del loro vocabolario. Come ex diplomatico, mi chiedo spesso dove abbiamo sbagliato (includendo nella domanda i politici, i diplomatici, gli esperti, i giornalisti, gli imprenditori, gli uomini di fede, i militari, le opinioni pubbliche, ecc.).
Stento a vedere oggi le speranze che il mondo aveva nel secondo dopoguerra; se un tempo era normale vedere dei giovani che avevano ambizioni forti ed erano decisi a fare di tutto per realizzarle, mi sembra che la percentuale di giovani del genere si sia ridotta; per molti, è normale considerare la soddisfazione a breve o quella illusoria (vedi i social) come un traguardo valido. Le organizzazioni internazionali hanno visto il loro ruolo ridursi; il rispetto dei patti è diventato opzionale. Non ho dubbi, tuttavia, che – se è vera la situazione che descrivo – la responsabilità sia da ascrivere alla mia generazione; avremmo potuto fare meglio? Certo! Come? Temo che la mia risposta e i miei dubbi siano eloquenti circa la mia visione non ottimistica della situazione internazionale”.
Lei è stato Ambasciatore in Bielorussia mentre era già al potere Lukashenko. Che cosa ha significato? Che rapporti c’erano con i vertici del Paese?
“Ho avuto la fortuna di essere nominato Ambasciatore d’Italia a Minsk nel 2001, quindi relativamente giovane per essere Capomissione in un Paese europeo, ma non facile. Avendo già l’esperienza dell’Unione Sovietica negli anni 1980-1983, molte caratteristiche e abitudini locali mi erano familiari. Ho visto l’eredità della tragedia di Chernobyl nelle famiglie e nella società, la difficoltà di un Paese compresso fra la Russia e la NATO, il peso della storia in un’area (senza frontiere naturali) dilaniata per secoli da conflitti ed occupazioni straniere, la mancanza di una cultura propria, l’ambizione di essere un paese autonomo nelle proprie decisioni, il difficile percorso (dopo gli eventi del 1991 in URSS) verso una parvenza di capitalismo. Come sempre, il rapporto con la popolazione era buono, e i bielorussi avevano grande riconoscenza verso le famiglie italiane che accoglievano ogni anno decine di migliaia di bambini e giovani per i soggiorni ‘terapeutici’ intesi ad eliminare gli effetti deleteri della vita nelle zone colpite dalle radiazioni derivanti da Chernobyl”.
Il ruolo dell’Italia e dell’UE nel conflitto tra Kiev e Mosca?
“Così come ho spesso contestato i non specialisti che ai tempi del Covid si ergevano quali tuttologi televisivi o mediatici, mi astengo dal proporre ricette o suggerimenti: è indispensabile la conoscenza di troppe variabili a me ignote, e comunque non vi sarebbe lo spazio per una disamina accurata in questa intervista. Comunque, poiché i miei nonni materni avevano lasciato la Russia nel 1914 – ed essendo mezzo russo –, non posso che vedere con dolore un conflitto che dilania popoli così vicini fra sé e amici degli italiani”.
Come si ricostruisce un percorso di pace?
“Il Generale De Gaulle direbbe: ‘Vasto programma’. Non mi spingerei ad evocare realisticamente in questo momento la costruzione di un percorso di pace; tutt’al più si possono ipotizzare delle tappe per una possibile soluzione. Gli ingredienti indispensabili per tentare di avvicinarvisi sono numerosi. Intanto, una soluzione deve essere duratura, controllabile, soddisfacente per i due contendenti, per le rispettive popolazioni e per i loro vicini; devono poi essere valutati dalle due parti: risarcimenti, procedimenti per valutare gli atti commessi, procedure adatte per rispettare le etnie, le lingue, l’educazione, gli aspetti spirituali, i riflessi economici, i trasporti, la ricostruzione, gli approvvigionamenti, l’esportazione di prodotti alimentari e non, ecc. Il primissimo ingrediente è comunque la fiducia, la buona fede, il rispetto dell’altro e dei mediatori attendibili e capaci”.
Il viaggio e il dialogo con i popoli, le identità, le tradizioni. Qual è lo sguardo da assumere, quando ci si mette in cammino?
“Anche se sembra tautologico, è importante decidere se e quando avviarsi: il momento deve essere propizio, il viaggiatore deve essere in grado di apprezzare psicologicamente ciò che farà, facendone beneficiare se medesimo e coloro con cui entrerà in contatto; ciò esclude automaticamente il viaggio effettuato solo ‘per diporto’. Solo allora ci si potrà mettere in cammino: devi augurarti che ‘la strada sia lunga e fertile in avventure ed esperienze’ (Kavafis). Non conta il raggiungimento dell’obiettivo: ciascuno crea il proprio universo durante la via. Meglio se viaggia da solo. Conta come si arriva: arricchendo la propria umanità, cercando di entrare in sintonia con altri, tenendo a mente che il viaggiatore è un intruso, e che per farsi accettare deve dimostrare di esserne degno.
Essenziale, secondo me, è sapere cosa si vuole ottenere dal viaggio: semplice trasferimento, distensione o divertimento, conoscenza di posti belli, contatto con gli altri (se possibile non limitato al viaggio ma foriero di amicizie solide), oppure, infine, approfondimento delle tradizioni e della storia. Ma altrettanto importante è sapere cosa si può portare agli altri, spesso persone di grande valore: per fortuna nessuno pensa di portare delle perline come facevano un tempo gli esploratori; piuttosto, il viaggiatore è in grado di lasciare un ricordo duraturo basato sul rispetto e non sull’arricchimento materiale? È in grado, a sua volta, di aprire orizzonti e prospettive per coloro che lo accolgono?”
Quali sono le immagini più intense tra quelle collezionate durante le sue trasferte?
“Se mi limito alla natura, alcuni posti mi hanno lasciato senza parole: il Grand Canyon, le Ande, gli iceberg in Antartico, il mare in burrasca. Quanto agli uomini, le mie foto di relitti non ritraggono mai individui; ciò nonostante questi ultimi sono sempre presenti nella mia memoria; tutti i relitti significano uomini e sofferenza. Escludendo i relitti, più in generale, non posso dimenticare il canale di Panama, la fede dei monaci in innumerevoli monasteri, il coraggio dei marinai che cacciavano la balena, le intuizioni degli architetti di Santa Sofia – modello di tutti gli edifici religiosi monoteisti –, il coraggio degli individui nelle dittature, l’altruismo di coloro che si sacrificano per gli altri, la genialità di tanti ingegneri, architetti, artisti ed artigiani in tutti i paesi e in tutte le epoche, la determinazione di coloro che si sono battuti e si battono per le loro idee”.
La nostra domanda di rito. Da un punto di vista simbolico, spirituale, il viaggio per lei che cos’è?
“‘Partire è un po’ morire’, scrisse Edmond Haraucourt in un poema del 1891. A mio parere, il viaggio significa l’opposto, perché partire è vivificante, a condizione di intraprenderlo e condurlo nelle condizioni giuste. Del resto, poche affermazioni hanno suscitato altrettanti commenti contraddittori, e da millenni si cerca di capire il senso del viaggio. Il viaggio è l’opposto della routine, immerge il viaggiatore nella corrente della vita, porta a guardare avanti, simboleggia la libertà, la ricerca di se stessi e l’uscita dal porto sicuro, mette alla prova, fa uscire dalla propria testa, induce alla riflessione, consente di scoprire gli altri e di affidarsi ad essi; ma un viaggio riuscito permette anche di apprezzare ciò che si lascia e che si ritroverà al ritorno, realizzando una sorta di equilibrio. Un viaggio non deve essere un sotterfugio per sfuggire a se stessi, ma un premio”.
*Si ringrazia Maurizio Cabona per la collaborazione.
Le opere di Stefano Benazzo sono visibili sul sito www.stefanobenazzo.it
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Molto in teressante. Anche a me piacciono i relitti di navi, aerei, auto. Credo che le grandi navi per lo più finiscano demolite in Turchia, India, Pakistan.
Bel personaggio!
Interessantissimo.
Sono queste figure. Che meriterebbero e frequentassero facendovi programmi televisivi..