Fabio Polese, autore del libro “Strade di Belfast. Tra muri che parlano e sogni di libertà”, giornalista e fotoreporter traccia il resoconto delle avventure nella terra delle Sei Contee. “Se ci sarà l’unificazione dell’Isola? Quello che credo io conta poco, ma tutte le persone che ho incontrato lì sanno che succederà”.
Belfast e dintorni. Dove il sacrificio di Bobby Sands e degli altri patrioti repubblicani incendia ancora l’orizzonte. In bilico tra presente e passato, mentre adagia la lente della riflessione sulla Brexit, sui dialoghi avuti con gli ex militanti dell’Irish Republican Army (Ira) e sulle tensioni che tuttora dividono la comunità nazionalista da quella lealista, il giornalista e fotoreporter Fabio Polese indaga la temperie politica e culturale della terra delle Sei Contee e ci accompagna nella lettura del suo “Strade di Belfast. Tra muri che parlano e sogni di libertà”.
Fabio Polese, lei ha realizzato reportage in diverse realtà complesse del globo. Uno di questi è dedicato all’Irlanda del Nord ed è stato pubblicato in un libro. Si tratta di “Strade di Belfast. Tra muri che parlano e sogni di libertà”. Cosa l’ha spinta ad avventurarsi nella terra delle Sei Contee?
“Sin da bambino sono sempre stato affascinato da quell’isola ribelle che non voleva piegarsi a sua maestà. Così, appena ho potuto, sono partito. Il mio primo e vero reportage giornalistico lo ho realizzato proprio da Belfast ormai quindici anni fa”.
Che immagine dell’Irlanda del Nord emerge dalle pagine del libro?
“Nel libro ho cercato di raccontare Belfast attraverso le fotografie e le parole degli intervistati: associazioni di quartiere e ex combattenti dell’Esercito Repubblicano Irlandese (Ira). Per capire il passato, ma soprattutto il presente. Perché, se è vero che la situazione si è tranquillizzata negli ultimi decenni, in questa terra martoriata, il passato è difficile da dimenticare e la voglia di libertà è ancora incisa nel cuore di ogni repubblicano”.
Quali sono i luoghi che ha visitato nel corso dei viaggi fatti in Irlanda del Nord?
“Ho girato praticamente tutta l’Irlanda del Nord, ma il mio lavoro si è concentrato prevalentemente a Belfast e Derry”.
Quali momenti delle esperienze vissute per le strade di Belfast ricorda con più intensità?
“Sicuramente l’incontro con Frank Gill, un ex volontario dell’Ira negli anni duri del conflitto nordirlandese che ha trascorso 8 anni e 10 mesi imprigionato a Long Kesh, nello stesso periodo di Bobby Sands. E poi, i giorni infuocati di luglio, quando le parate orangiste cercano di passare nei territori dei nazionalisti”.
Nel suo libro ha descritto le parate mediante cui, ogni anno, nel mese di luglio, la comunità lealista (soprattutto di fede protestante) rivendica l’antica vittoria delle truppe di Guglielmo d’Orange sulle forze del re cattolico Giacomo II andando così a rinverdire la tensione esistente con la comunità nazionalista (in larghissima parte cattolica). Come si è evoluto il rapporto tra le due componenti della popolazione nordirlandese? E, oggi, in che condizioni si trova?
“Le parate orangiste, anche se con minore intensità, continuano a infuocare Belfast e altre roccaforti nazionaliste. In generale, la situazione non si è certo normalizzata. C’è ancora una netta differenza tra le varie parti della popolazione. Molto spesso chi nasce in un quartiere repubblicano, difficilmente avrà rapporti con chi nasce in uno lealista. E viceversa. Questo incrementa le differenze sociali”.
L’Accordo del Venerdì Santo, siglato nel 1998, prometteva di sopire il fuoco della guerra fratricida che ha progressivamente demolito il tessuto sociale nordirlandese. Che impatto ha avuto concretamente tale trattato nel processo di pace? A che punto siamo in questo tortuoso cammino?
“Nell’assemblea straordinaria dei vertici dell’Ira, che si è tenuta qualche mese prima dell’Accordo del Venerdì Santo (Good Friday Agreement) del 1998, dove è stata firmata l’intesa di pace tra il governo britannico e quello irlandese, che avrebbe dovuto porre fine a decenni di guerra intestina, le decisioni di Gerry Adams non erano state viste di buon occhio da tutti. Al tempo, non tutte le armi in possesso dell’Ira sono state smantellate e alcuni hanno continuato a vedere la lotta armata come unica soluzione percorribile. Così, ancora oggi, esistono diversi gruppi paramilitari. Il più attivo è quello della New Ira che, secondo le testimonianze che ho raccolto, conta circa duecento uomini operativi solo nella città di Belfast. Ma ovviamente, i numeri sono difficili da quantificare. Per alcuni analisti, in tutto, non supera le cento persone”.
Una funzione rilevante nella direzione dell’indipendenza e dell’unificazione dell’Irlanda da sempre è stata svolta dallo Sinn Féin, il partito nazionalista presente nell’intera Isola. Quanta influenza ha sullo scacchiere politico in cui si muove?
“Sicuramente molta. Gran parte dei nazionalisti hanno seguito le scelte fatte da Gerry Adams. Ma non tutti. E soprattutto negli ultimi anni, c’è stata una crescita di diversi movimenti che hanno preso piede soprattutto tra i più giovani. Uno di questi è Saoradh, che per molti è ritenuto il braccio politico della New Ira e che, nel 2020, è stato decimato da una imponente operazione della Police Service of Northern Ireland (Psni) – la polizia del Nord Irlanda – insieme ai servizi di controspionaggio britannici dell’MI5”.
Nel 2016, a differenza di quanto avvenuto in Galles e in Inghilterra, la maggioranza della popolazione in Irlanda del Nord e anche in Scozia si è espressa a sfavore della Brexit: considerata dunque la dissonanza verificatasi tra la pronuncia delle Sei Contee e il risultato complessivo del referendum sulla permanenza del Regno Unito nella UE, quale effetto ha avuto in territorio nordirlandese l’esito di questa votazione?
“Gran parte della comunità nazionalista e quella lealista si sono espresse contrarie nell’uscire dall’Unione Europea. Questa è stata soprattutto una scelta economica. L’Irlanda del Nord, fuori dalla UE, è isolata dal resto del mondo. Per quanto riguarda i gruppi repubblicani, la chiusura reale dei confini con l’Irlanda, significa più controlli e restrizioni. Non bisogna dimenticare, infatti, che gran parte delle basi logistiche dei gruppi dissidenti si trovano nella Repubblica. Nella realtà, non credo sia cambiato molto, almeno fino ad oggi”.
Il quadro storico e sociologico nordirlandese indagato nel suo libro trova ulteriore approfondimento nelle interviste da lei fatte ad alcuni irredentisti che durante gli anni dei Troubles si arruolarono nell’Ira contro il dominio della corona inglese. Quale racconto rievocano questi preziosi dialoghi?
“Portano alla luce una realtà sicuramente drammatica, ma a quanto mi hanno detto gli ex-combattenti, l’unica scelta percorribile. Negli anni più duri del conflitto, infatti, essere un repubblicano significava non avere diritti e subire soprusi quotidiani”.
È il già citato Frank Gill, uno tra gli intervistati, a parlare delle schiere armate di indipendentisti che hanno continuato ad operare anche dopo l’annuncio con cui l’Ira dispose la distruzione degli equipaggiamenti militari. Quanto simili correnti assomigliano quindi all’esercito repubblicano che combatté durante gli ultimi decenni del secolo scorso? Che ruolo hanno attualmente?
“Il ruolo è sicuramente minoritario rispetto ad allora. L’Ira prima aveva il sostegno di tutta la popolazione, ora non è più così”.
Una cospicua porzione del suo lavoro raccoglie una serie di scatti dei numerosi murales politici che affrescano le pareti di Belfast. Cosa testimoniano?
“Testimoniano la storia di un popolo fiero che ancora oggi, seppur diversamente, non vuole arrendersi al dominio britannico e sogna l’unità d’Irlanda. Un murales, come una bandiera al vento, fa ricordare cosa si è e per cosa si combatte”.
Sulla copertina del suo libro campeggia il sorriso rivoluzionario di Bobby Sands, il soldato dell’Ira che in nome della causa nazionalista scelse la morte dopo sessantasei giorni di sciopero della fame scontati tra le sbarre di Long Kesh. Quale carica simbolica continua ad avere, insieme agli altri martiri dell’indipendenza irlandese, nell’immaginario collettivo dell’Isola?
“Non potevo scegliere un’altra copertina. Sono cresciuto con il mito di Bobby Sands, che con il suo atto sacrificale è diventato immortale. In Irlanda, come in altre parti del mondo, senza differenza di credo politico o fede religiosa, è l’esempio di sacrificio e di lotta per la libertà”.
Crede che il destino dell’Isola possa davvero essere quello dell’unificazione e dell’indipendenza?
“Quello che credo io conta poco. Ma tutte le persone che ho incontrato in Irlanda del Nord ci credono. Non sanno quando, ma sono sicuri che succederà”.
In conclusione quale accezione simbolica e spirituale assume per lei l’ideale del viaggio?
“Mettersi alla prova. Andare alla ricerca dell’avventura, avere la curiosità di scoprire mondi diversi e nuovi sentieri. Ecco, per me il viaggio è questo. Vivere e non sopravvivere”.
Le altre interviste del ciclo Viaggi&Patrie