Dal Bosco delle Pianelle alle vette candide del Gargano viaggiando per le strade della Valle d’Itria e della Murgia, abbiamo indagato in profondità l’anima segreta della Puglia per attingere alle forze misteriose della natura e del paesaggio, abbiamo provato a rigenerare un contatto simbiotico con le radici antiche della terra contro le sirene assordanti della modernità e i miti logoranti del progresso; in un’avventura senza sosta e senza meta, ci siamo perduti e ritrovati nella riscoperta ancestrale dell’essenza vivente del creato.
Perché lanciarsi in questa ricerca? La domanda invero ce la siamo posta anche noi quando tentavamo di spingerci per le vie impervie di Monte Sant’Angelo e i sentieri innevati della Foresta Umbra; e ne abbiamo avuto risposta solo dimenticando i ritmi frenetici della quotidianità, provando a ricostruire un dialogo creativo con la terra e il cielo, con gli alberi e le pietre. Se non è stato difficile orientarsi tra i boschi della Murgia, non nascondo la fatica accumulata sulle vie ghiacciate del Gargano.
Senza alcun intermezzo (il tempo a disposizione non ce lo concedeva: dovevamo fuggire alla prepotenza dell’imbrunire) abbiamo cambiato rotta diverse volte per raggiungere la zona più interna del Parco nazionale, sforzandoci di comprendere le indicazioni dei passanti e il groviglio confuso dei cartelli: la Foresta Umbra copre quindicimila ettari di terreno, le entrate sono disparate e trovare quella più favorevole è stato possibile solo dopo una lunga perlustrazione.
Arrivati nella città di Mattinata, superato il foggiano, siamo stati costretti a fare marcia indietro; la Fiat usurata che ci ha accompagnato nell’avventura non consentiva di arrampicarsi ancora sulle strade gelate e, data l’assenza dei guard-rail, abbiamo preferito cercare un itinerario più agevole. Non che ce ne fossero. La neve soffocava i tornanti: la bufera della notte precedente aveva lasciato traccia della sua traversata. Durante la lenta avanzata infatti, causa l’evidente inadeguatezza che mostrava la vettura nel mordere il ghiaccio, siamo riusciti ad attirare (involontariamente) l’attenzione di una pattuglia della forestale. Stava sondando gli accessi primari: una coppia di pellegrini le dimostrava che gli accertamenti condotti sino a quel momento non erano stati totalmente vani. Un controllo rapido dei documenti e qualche ragguaglio (che in questo genere di casi può sempre rivelarsi illuminante); poi di nuovo in marcia. I due uomini in divisa si erano raccomandati di non addentrarsi ancora; non gli abbiamo dato troppo ascolto: le ore affastellate, d’altra parte, sembravano ordinarcelo. Libertà, finalmente l’agognata libertà. Iniziavamo adesso ad assaporarne il significato più autentico. E man mano che progredivamo nel nostro cammino, mentre si infittiva la vegetazione che tutt’intorno ci abbracciava, ne trovavamo conferma nell’imponenza elegante di quell’oasi verde che ci aveva chiamati all’esplorazione.
Alla fine, siamo riusciti a raggiungere la foresta dopo un saliscendi continuo tra i monti; ma a giudicare dal panorama -un inanellarsi inarrestabile di effetti cromatici incantevoli- siamo stati felici di dirci sulla via del ritorno che forse ne era valsa la pena. Oltre gli automatismi della città c’è un mondo che sta morendo, che raccoglie la nostra eredità, le nostre tradizioni paesistiche e -quindi- culturali: e addentrarsi nel bosco, percorrere la china ripida della montagna permette di liberarsi dal pantano consumista e dai veleni subdoli della tecnica per riconnettersi al flusso elementare della terra e del cosmo.
La natura come custode magica dello spirito del popolo e della sua identità, la percezione dell’ipocrisia utilitarista e materialista, una nuova sintesi tra io e ambiente sono solo alcune delle motivazioni che hanno ispirato il nostro viaggio. La verità è che appare sempre più urgente rievocare una contro-visione da opporre ai cascami della narrazione dominante; è necessario per sfatare la chimera dell’individualismo e dell’antropocentrismo che riduce il reale a mero oggetto manipolabile e tornare a parlare di tradizione, di radici, di comunità. Se i nemici designati sono l’iper-sfruttamento generalizzato e la soppressione delle specie, bisogna allora modellare una lotta sistematica contro le cause scatenanti: non saranno le anime belle votate al progresso e all’edonismo disinibito a contrastare la supremazia del pregiudizio scientista e il conseguenziale depauperamento dei territori. Avvertiva giustamente Ludwig Klages,
“Con i pretesti dell’utile, dello sviluppo economico, della cultura, il progresso in realtà distrugge la vita, l’aggredisce in tutte le sue forme, taglia i boschi, estingue le razze animali, fa sparire i popoli primitivi, deturpa e deforma il paesaggio con cartelli pubblicitari e avvilisce quel poco che ancora lascia degli esseri viventi, ridotti come bestiame da macello ad una semplice merce, ad oggetti a disposizione di un’illimitata fame di bottino”.
E l’eco stentorea delle sue parole rimbomba tuttora, dopo oltre un secolo, nell’intreccio nodoso dei sentieri; e quasi pare un monito di fronte alla minaccia incombente suffragata (tra le altre cose) dall’incalzare irrefrenabile del disboscamento feroce insieme ai fumi dell’urbanizzazione incontrollata.
Sarebbe tuttavia inefficace, se non inconsistente o addirittura fuorviante, prospettare la battaglia futura cavalcando l’onda dello sterile naturismo, privo di esiti altri che non siano quelli della facile evasione dalle gabbie asfissianti del grigiore cittadino, della volontà di un appagamento puramente compensativo rispetto agli squilibri -manifesti- della modernità. Non sarà un reinventato “luddismo” a capovolgere gli assetti imperanti.
Al di là della fruizione ricreativa e accidentale degli spazi naturali, bisognerebbe invece immaginare il panorama paesaggistico e l’eredità paesistica come il frutto di un’armonia primigenia tra uomo e terra: che si estrinseca in opere, realizzazioni e costruzioni coerentemente integrate; e che in tal senso rappresenta la fisionomia originaria del popolo, racconta dei suoi costumi, delle sue tipicità. Il territorio dunque scandisce con questi segni i tratti propri di una civiltà e della sua storia, dei simboli e dei riti che l’hanno nutrita e sostanziata; esso allinea organicamente chi lo vive e lo difende a una coscienza comune, a una comune consapevolezza che proietta il suo sentire intimo nel paesaggio, cui imprime una forma, potenzia di un significato ulteriore. E allora quale la giustificazione, quale il senso valoriale della nostra avventura? Chiarirlo non è semplice. Possiamo dire che vi è un’impellenza inderogabile di risposte, di nuovi e più vivaci propositi: per rimodulare i paradigmi e ridisegnare le prospettive, e tornare finalmente a parlare con un linguaggio di verità.
Non potremo esimerci da una rivalutazione del nostro ruolo di uomini, delle nostre esigenze e delle nostre priorità. Come suggeriva Rutilio Sermonti, la soluzione non soltanto è di carattere ecologico ma soprattutto spirituale, oltre che morale, intellettuale. Quando avremo compreso questo, le menzogne che ci hanno propinato crolleranno insieme agli idoli di carta che abbiamo costruito: e con essi la questione ambientale, che poi è esistenziale e trascendentale, svanirà sotto i colpi vigorosi di un’etica rinnovata. Solo così sarà forse ristabilita la consonanza cosmogonica che, sin dai tempi più antichi, lega l’uomo alla bellezza sublime del creato. O almeno a questo pensavamo inseguendo il crepuscolo e immergendoci innocenti tra i fusti della foresta.
“Tu non sai dove la strada ci porta,
solo che noi andiamo insieme.
Tu come noi hai sentito il fuoco
e il forte vento soffiare”
*Il reportage è stato composto con Luca Indellicati
bell’articolo! complimenti!