Parigi, il Romanticismo fascista, la Nouvelle Droite. Dalle librerie della capitale al pellegrinaggio sulla tomba di Céline, dal dialogo con Lucette Almansor alle atmosfere culturali dei nostri giorni, Manlio Triggiani racconta il suo itinerario d’Oltralpe tra incontri insoliti e svariate peripezie spirituali.
Manlio Triggiani, giornalista, curatore di collane e scrittore, in quale occasione ha deciso di recarsi a Parigi sulle orme degli autori del Romanticismo fascista?
“Mi ero laureato da qualche mese e avevo previsto di fare un viaggio nella capitale francese. Nonostante chi doveva partire con me si tirò indietro all’ultimo momento, decisi di andarci da solo. La solitudine, specie nei viaggi, aiuta a pensare meglio e a conoscere meglio i luoghi che si visitano. Così partii e rimasi a Parigi per quasi due mesi. Fu l’occasione, da viaggiatore, di conoscere una città che mi attraeva”.
Oltre a Parigi, ha conosciuto altri luoghi durante la sua esplorazione?
“Più che vedere tanti posti (altre città francesi le ho visitate prima e anche in seguito) dopo aver conosciuto bene Parigi preferii rimanerci ancora per “viverla”, cercando di fare la vita da semplice cittadino. Frequentando non solo i posti noti, ma anche luoghi che a tutta prima sembrano meno interessanti ma che rivelano aspetti non proprio secondari per capire la vita di una città. Un modo per conoscerla bene seguendo un percorso inedito, personale, tracciato sulla base dei propri interessi. Certo, visitai varie città e cittadine a corona della capitale. Fra queste, per seguire il mio itinerario interiore, Courbevoie e Meudon, dove Louis-Ferdinand Céline nacque e morì. Poi a Meudon contattai telefonicamente la moglie Lucette Almansor (il suo nome era semplicemente sull’elenco telefonico!), e portai dei fiori sulla tomba dello scrittore”.
Sulle tracce di Céline
A proposito del dialogo telefonico con Lucette Almansor, quali sono i risvolti di quell’episodio che ricorda più intensamente?
“La voce stanca che nello stesso tempo trasmetteva tenacia. Quando parlava del marito ne parlava come se fosse presente e non un ricordo lontano. Non diceva “mio marito” o “Ferdinand” ma sempre “Céline”. Disse che lei non riceveva nessuno perché non stava molto bene e mi chiese se ero disponibile a contattare François Gibault, amico di famiglia, avvocato parigino di fama, il miglior biografo dello scrittore. La signora Almansor disse che la biografia di Céline scritta da Gibault, edita dal Mercure de France in tre volumi, era precisa, fedele e non c’era nulla da ridire in merito. Mi fornì indirizzo e numero di telefono dell’avvocato Gibault che nei giorni successivi contattai e raggiunsi nel suo studio di rue Monsieur. Trascorremmo due ore a parlare di Céline e mi chiarì alcuni aspetti della vita dello scrittore”.
Cosa l’ha colpita degli spazi parigini connessi alla letteratura di Céline, Drieu e Brasillach, tra periferie, bistrot, piazze e librerie?
“A parte la visita ai palazzi e alle strade dove gli scrittori avevano vissuto (per Céline rue Girardon, Passage Choiseul, rue Lépic, ecc.) e ai luoghi di incontro, Cafè Flore, le terrasses ecc. anche le librerie, i luoghi di periferia, il piano terra delle edizioni di L’Age d’homme, mercati delle pulci dove poter acquistare libri e riviste ormai introvabili, i bouquinistes sul lungosenna ma anche il mercato delle pulci di Porte de Vanves dove feci incetta di libri e riviste fra i quali libri degli autori del “Romanticismo fascista”. Riuscii a trovare la prima edizione francese del Voyage di Céline, un bando del Settecento, un manifesto molto bello e altro. Due scoperte furono particolari in quei giorni: una libreria che non esiste più, “La Vouivre”, dove comprai libri e riviste, il cui titolare aveva i miei stessi interessi e la sede del Grece, dove mi presentai e conobbi Alain de Benoist e Guillaume Faye. Quest’ultimo mi invitò a pranzo e trascorremmo alcune ore molto interessanti. Un intellettuale che coniugava come pochi pensiero critico e militanza. In rue St. Michel, visitai la casa editrice e libreria Editions Traditionnelles, dove comprai libri e riviste e parlai di studi tradizionali con un addetto alla libreria”.
Romanticismo fascista
In particolare, ad utilizzare l’espressione “Romanticismo fascista” fu Paul Sérant che intitolò così un suo iconico lavoro. Cosa intendeva delineare tale denominazione?
“Paul Sérant (1922-2002) fu un giornalista e scrittore autore di libri pionieristici. Romanticismo fascista è un’analisi sul pensiero politico di sei scrittori e giornalisti francesi che pur avendo provenienze differenti assunsero le stesse posizioni politiche negli anni Trenta e Quaranta: Abel Bonnard, Robert Brasillach, Louis-Ferdinand Céline, Alphonse de Chateaubriant, Pierre Drieu La Rochelle, Lucien Rebatet. Perché romanticismo fascista? Per Sérant questi scrittori si caratterizzarono su vari livelli, con il lirismo, e le loro scelte politiche si confondevano particolarmente con la ricerca di un nuovo stile di vita comunitaria, di una “poetizzazione” dell’ordine politico e sociale. Nel 1944, del resto, proprio Drieu La Rochelle sostenne che il fascismo non era altro che “il camuffamento meravigliosamente efficace d’una grande spinta sociale della piccola borghesia, furiosamente romantica, come tutto ciò che è promanato e promana ancor oggi dalla piccola borghesia, in quanto non è morta”.
Da un’angolatura di carattere sociologico, invece: che genere di clima culturale e politico permea oggi la capitale e, per estensione, la Francia?
“Non vivo in Francia e non conosco la situazione direttamente. Da quello che leggo sui giornali, posso dire che la dinamica del pensiero unico e del politicamente corretto forse è più presente e pesante che altrove. Inoltre gli aspetti che sociologicamente hanno maggior peso, nella vita quotidiana, come la crisi economica e del lavoro, gli effetti della globalizzazione, l’immigrazione e la mancanza di integrazione di immigrati, tale perché impossibile, hanno un impatto davvero pesante acuendo le frizioni in una società che, per le politiche perseguite, rischia di vedere peggiorare la crisi”.
È acclarato che nell’area non conformista francese ci siano laboratori valevoli, innovativi. Qual è nell’Esagono, a tal proposito, lo stato di salute degli scenari intellettuali non allineati?
“Da quel che so è buono ma spesso sono realtà frazionate fra loro. Per cui c’è un ventaglio di realtà ma anche molta frammentazione”.
La Francia intellettuale dei nostri giorni
Dagli scrittori collaborazionisti a Raspail, Michel Houellebecq, Onfray. Quale il ruolo degli intellettuali francesi nel decifrare il nostro tempo?
“Funzioni differenti quelle dei collaborazionisti e quelle degli scrittori controcorrente della seconda metà del Novecento. L’organizzazione del consenso per i primi, la critica del presente per i secondi. Raspail e Houellebecq, Onfray ma anche Faye, de Benoist, Zemmour, denunciano ciò che ai loro occhi non va bene. Analizzano questa società postmoderna partendo dalle contraddizioni. Ma non bisogna generalizzare. Alcuni intellettuali sfruttano le proprie rendite di posizione, altri combattono per la propria visione del mondo. In gran parte gli intellettuali sono altro, specie quelli che lavorano nell’Accademia. Georges Sorel diceva: “Gli intellettuali non sono, come si sente dire, gli uomini che pensano: sono coloro che fanno professione di pensare e che prelevano un salario aristocratico in ragione della nobiltà di questa professione”.
Recentemente ha curato l’introduzione al libro “Céline e la Germania” di Alain de Benoist, pubblicato da L’Arco e la Corte. Su cosa dell’opera celiniana si sofferma il filosofo?
“È un validissimo studio, pubblicato nella collana che dirigo per L’Arco e la Corte, sui rapporti fra Céline e la Germania e i rapporti che ebbe lo scrittore di Courbevoie con i tedeschi durante la sua vita e durante l’Occupazione. Emerge chiaramente che Céline auspicava un’alleanza fra francesi e tedeschi in funzione tanto antiamericana quanto antisovietica, puntava a combattere il comunismo e il capitalismo, sperava in una rinascita della Francia attanagliata dalla decadenza e nello sviluppo dell’Europa. Ma emerge altrettanto chiaramente che non è mai stato un collaborazionista come in cattiva fede affermava certa sinistra d’Oltralpe, Sartre in testa”.
In Francia e successivamente in Europa, si sarebbe sostanziato nel corso del secondo Novecento il movimento della Nouvelle Droite con le sue evoluzioni. Che peso continentale ha avuto questa scuola di pensiero?
“È stata un’apripista. Un nuovo metodo di ricerca, l’approccio a nuovi settori da scoprire e analizzare, la critica alla società mercantile, l’antiegualitarismo dichiarato, il ricorso alla genetica, alla biologia, i notevoli Comité de patronage, pieni di nomi di primo piano della cultura francese ed anche europea. Questo approccio che teneva conto del fatto che tutto è politico ma soprattutto che la ricerca passa attraverso tutte le scienze, le specializzazioni, e che l’analisi della modernità attraversa tutto ciò che è cultura, comprese le arti, la musica, il cinema, la letteratura, il teatro, la filosofia, la mitologia, ecc. Una lezione che ha trovato epigoni e nuove correnti in tutti i Paesi europei e anche in qualche realtà nell’America del Nord e in quella del Sud. La nuova lezione è stata la nuova metodologia di ricerca e critica che per la verità ben prima della ND francese io ho individuato in un gruppo molto effervescente e rivoluzionario: quello delle riviste fiorentine dei primi anni Dieci. Tesi che ho sostenuto nel saggio introduttivo all’antologia da me curata La Rivoluzione conservatrice alle radici del Fascismo (ed. Pagine, Roma).
La corrente della ND italiana è capeggiata dalla fine degli anni Settanta da Marco Tarchi, oggi ordinario di Scienza politica nell’Ateneo fiorentino. Questa corrente mostra una chiara attenzione verso la politica, la politologia e la sociologia. Le due riviste dirette da Tarchi, “Diorama” e “Trasgressioni”, escono dal 1976 e dal 1986. Sono laboratori di idee interessanti”.
Ha intenzione di ritornare in Francia?
“Ci sono tornato più volte e conto di tornarci ancora”.
Per concludere, devo porle la nostra domanda di rito. Cos’è per lei il viaggio? Quale significato spirituale e valoriale assume tale concezione nelle sue “avventure”?
“Pietro Citati diceva che “Viaggiare non è altro che il passo e l’aura e la gioia della giovinezza” e da giovane ho viaggiato molto. Viaggi anche spericolati. Il primo fu con un amico, a 17 anni di età, con zaino in spalla in giro per un mese e passa nei Paesi dell’Est occupati dai regimi comunisti dei plumbei anni Settanta. Tour Jugoslavia-Romania e Bulgaria (qui stemmo solo 24 ore, perché cacciati con un foglio di via perché “sgraditi” a causa dei capelli lunghi, come ci spiegò a bassa voce una guardia di frontiera, una bella ragazza bionda che imbracciava un pesante mitragliatore…). Fu molto educativo anche se non mancarono momenti esaltanti e momenti meno belli ma sempre chiarificatori sui regimi socialisti. Viaggiare ha il suo fascino ma col passare degli anni, per dirla con uno scrittore inglese che amo molto, Evelyn Waugh, viaggiare non è più tanto un piacere: il mondo si è ristretto, turisti ovunque e sempre meno viaggiatori, low cost trasferiscono in giro per il mondo gente che non viaggia per conoscere e per capire ma per andare da qualche parte e basta. Per svagarsi. Le grandi città stanno finendo per somigliarsi l’una con l’altra, le abitudini alimentari sono replicate ovunque in locali appositi per turisti. Le osservazioni di viaggio o i quadri di artisti alla fine del Grand Tour scordateveli, ci sono gli spot in tv o sul cellulare e le mail delle compagnie low cost che garantiscono sconti notevoli se si è pronti a partire subito risparmiando. Ma subito. Magari fino all’ultimo la gente non ha capito bene dov’è la località per la quale sta partendo, ma parte convinta di fare un viaggio straordinario, che è anche un affare. E le code negli alberghi, negli aeroporti, nei musei ecc. Tutto è ridotto a merce. La merce delle merci, poi, sono i “viaggi intelligenti” quelli spacciati “per capire la cultura” che costano di più perché c’è tutto un apparato apposito che fa lievitare i prezzi senza aggiungere nulla di più, in realtà. So che è una critica alla globalizzazione ma è tutto vero. Comunque, da buon Sagittario, amo viaggiare. Si torna sempre più ricchi e il ritorno da solo ha un fascino supplementare. Quando partii da Parigi, il ritorno fu particolarmente bello e carico di emozioni. Per prolungare questa sensazione, mi fermai tre giorni a Pavullo nel Frignano (Emilia Romagna), nella Scuola nazionale di paracadutismo fondata da Ariodante Mazzacurati, per fare qualche lancio insieme ai miei amici pugliesi che erano lì da una settimana. Non mi lanciavo da qualche mese… E così, fra lanci a ripetizione e sidro normanno portato dalla Ville lumière, trascorremmo serate cameratesche. Il viaggio è anche questo. A proposito: sto organizzando, con un amico, un viaggio speciale…”