La montagna e le sue potenzialità. La bellezza suggestiva dei percorsi e degli scenari contemplati inseguendo le vette. In difesa dell’identità dei borghi montani e della loro valorizzazione, Augusto Grandi – direttore di ElectoMagazine.it, e già firma del Sole24Ore – traccia la testimonianza degli anni impegnati a lottare per la causa delle Terre Alte.
Augusto Grandi, giornalista e scrittore, direttore di Electo Magazine, perché dobbiamo “riscoprire la montagna”?
“In realtà spero che non siano in tanti a “riscoprire” la montagna. Le Terre Alte non sono per tutti. Sono un territorio da proteggere, da tutelare. Ma non come vorrebbero gli ambientalisti urbani che credono che le montagne siano il parco giochi, selvaggio, dei cittadini in cerca di evasione nei fine settimana. La montagna è vita, è sfida, è qualità della vita, è capacità di confronto con se stessi e con gli altri. Soprattutto sulle Alpi e sugli Appennini è un mondo plasmato dai popoli che lo hanno abitato e trasformato. Hanno creato un sistema in grado di salvaguardare l’ambiente, ma senza rinunciare alla creazione di capolavori artistici ed architettonici”.
Quando ha iniziato a frequentare le vette?
“In montagna hanno cominciato a portarmi da piccolo. Ho foto, ovviamente in bianco e nero, con le mie prime camminate sui sentieri, con i primi sci. Il primo quattromila, sul Monterosa, a 18 anni. Ma in quegli anni, pur trascorrendo in montagna buona parte dell’estate, salivamo sulle vette 2/3 volte all’anno. Si giocava a pallone, con tornei in cui approfittavamo dell’altitudine contro chi arrivava dalle città e andava in crisi nel secondo tempo. In quegli anni la montagna era soprattutto invernale. Lavorando anche sulle piste da sci, avevamo gli sci ai piedi dal 7 dicembre al primo maggio. Solo più tardi, grazie ad un collega giornalista, ho iniziato ad arrampicare su roccia”.
Cosa degli aspetti e delle dimensioni della montagna l’ha affascinata con così tanta intensità?
“Il primo impatto è ovviamente naturale, ambientale. La possibilità di respirare aria fresca e pulita, di attraversare un bosco annusando i mille profumi, di mangiare un panino sul bordo di un lago. Poi sono subentrati gli aspetti umani. Ho avuto la fortuna di crescere insieme ai ragazzi di Ayas, in Valle d’Aosta. Abbiamo giocato insieme, amato e sofferto insieme. Ho imparato la lingua. Si è creato un gruppo compatto di villeggianti e locali che è raro trovare altrove. Una comunità di sentimenti, più che di idee. Perché le idee a volte sono contrastanti, opposte, ma l’affetto è sempre rimasto. Qualcuno torna dopo 20/30 anni, ed è come se fosse partito il giorno prima”.
Quali sono gli spazi montani che ha perlustrato nel corso delle sue avventure?
“Le “mie” montagne sono quelle valdostane e piemontesi. Dal Rosa allo Chaberton. Ma sono ovviamente stato sulle Dolomiti, bellissime e così diverse dalle nostre. All’estero il fascino delle montagne ecuadoregne. Ero abituato alle descrizioni dei sussidiari italiani che assicuravano che gli alberi crescevano solo sino ai 2mila metri o poco più. E mi sono ritrovato con alberi ai 4mila metri. Con immancabile esplosione notturna di uno dei tantissimi vulcani locali. E poi Ushuaia, el cul del mundo. Montagne che si immergono nell’Oceano, tra boschi e castori. Meraviglioso. E ancora in Cina, nello Yunnan. Tra impressionanti risaie a terrazze, cibo terribile ed un incontro con due francesi, unici europei per giorni e giorni: “Dottor Livingstone, i suppose!”.
Quali autori tradizionali sono utili per rafforzare la consapevolezza del rapporto fondante uomo-bosco, uomo-montagna?
“A differenza del mare, la montagna è scarsa di capolavori universali. Forse incide anche la difesa del proprio territorio, la tutela delle peculiarità. Anche questa è una ricchezza. Ci sono comunque autori che superano i confini locali. Mario Rigoni Stern e le sue storie dell’Altipiano, anche Mauro Corona al di là delle polemiche sul personaggio. È ricchissima la produzione di libri sugli Alpini, basti pensare a Marco Cimmino. E non va dimenticato un libro di un autore occitano, Mariano Allocco, che ha pubblicato Ex sudore populi: titolo latino, autore occitano ma è scritto in italiano ed è un saggio di politica montana”.
Ci sono virtù, principi che la montagna ha avuto il merito di trasmetterle?
“Il coraggio; la forza di andare avanti sempre e comunque, di affrontare condizioni estreme ma anche la capacità di fermarsi e di tornare indietro quando non vale la pena proseguire; la solidarietà, perché i compagni di avventura e di escursione non si abbandonano mai; l’amicizia; la convivialità e il piacere di ascoltare un coro alpino; la capacità di osservare”.
La globalizzazione accentua la metropolizzazione delle aggregazioni umane. Come difendere la specificità dei borghi di montagna?
“Lo smartworking potrebbe rilanciare i borghi alpini, ma esistono parecchi ostacoli. Il primo è quello del digital divide che penalizza le montagne. Ma anche la mancanza di servizi e di collegamenti “fisici”: ferrovie, strade adeguate. Però esistono anche forti resistenze umane e sociali. Spesso gli abitanti di piccoli paesi si lamentano dello spopolamento ma rifiutano l’estraneo che dalla città vuole trasferirsi in montagna. Si vuole evitare il confronto con chi ha una preparazione ed una professionalità elevate”.
Tra le altre cose, ha denunciato la dilagante tendenza alla marginalizzazione delle località montane: quali sono le disfunzioni istituzionali e amministrative che dovrebbero essere inderogabilmente sanate?
“Quando ho scritto il libro “Lassù i primi” ho voluto replicare ad un libro che si intitolava “Lassù gli ultimi”, all’idea dei montanari come mondo dei vinti. La montagna ha potenzialità enormi. E ne avrà sempre di più. Anche laddove deve superare la povertà, è in condizioni migliori rispetto alle città dove cresce la disperazione. Esistono problemi di trasporti, di scuole superiori per i ragazzi costretti a lunghe trasferte, di un servizio sanitario per nulla capillare. Esiste un problema di prezzi, legato ai piccoli numeri ed alle grandi distanze. Ed esiste un vulnus democratico: la montagna che era già poco rappresentata in parlamento, lo sarà ancora meno con il taglio dei parlamentari che finiranno per essere eletti solo da chi vive in città perché i numeri sono concentrati lì”.
Dai Wandervogel ai raduni patriottici in montagna: che impatto ha sulla formazione giovanile la vita ad alta quota?
“La montagna può avere un ruolo fondamentale nella formazione dei giovani. Ma servono formatori preparati. Perché non è facile far scendere un ragazzo da un divano dove è impegnato con lo smartphone per fargli affrontare 4/5 ore di cammino in quota per raggiungere una vetta da cui godere un panorama meraviglioso che il giovane è abituato a vedere su Google. Però, se si inizia presto a portare i bambini in montagna, se si insegna loro il sacrificio premiato dalla conquista delle vette, i risultati si possono ottenere. La mia grande soddisfazione è stata quando i miei figli, da bambini, hanno vissuto come un grande premio la decisione di portarli sulla prima vetta. C’erano 4 gradi sotto zero in piena estate e nessuno si è lamentato”.
La attendono nuove sfide tra le “sue” vette?
“No, il cuore non me lo permette più. Lo scorso anno sono riuscito a recuperare ed a tornare sopra i 3mila metri. Quest’anno mi sono limitato a vivere tra le mie montagne, a guardare le vette mentre cambiano di colore. Magari ci riproverò, ma saranno piccole cose”.
In conclusione, la domanda iconica del ciclo di interviste inaugurato da Barbadillo. Che tipo di significato spirituale assume per lei l’ideale del viaggio, dell’esplorazione?
“Un giornalista è per natura curioso. Almeno noi giornalisti d’antan. Vogliamo conoscere, capire, cercare ciò che non conosciamo. Ho avuto la fortuna di viaggiare molto, dappertutto. E ad ogni viaggio ho imparato qualcosa. Non solo nei Paesi più lontani, ma anche nei borghi italiani. Per me il viaggio è conoscenza. Dei luoghi, delle creazioni dell’uomo, dei modi di vivere. È la curiosità che fa andare avanti”.