In estate gli italiani scoprono i corpi al mare e la cultura in piazza. Ci vuole il caldo di luglio, d’agosto e di settembre per mettere finalmente a nudo ed esibire tra la gente quel corpo osceno che è il libro, portato direttamente dall’autore. Vai nelle piazze e trovi gente venuta lì apposta per ascoltare uno scrittore e farsi raccontare da lui del suo libro. Miracolo. Mai visti in libreria, ma quando il libro si mette le infradito e scende in spiaggia o si allunga in piazza, allora eccoli che arrivano, curiosi, a volte perfino volenterosi fino al sacrificio di acquistare un libro, tornando a casa col trofeo della festa.
D’estate hai quasi l’impressione di vivere davvero in un paese di antica civiltà che ama la cultura, che legge, oltre a scrivere tanto, che ascolta non solo concerti di coatti-rapper da sballo, ma addirittura poeti, letterati e pensatori. Sembra l’Italia come l’avevano immaginata i suoi più nobili precursori, grande civiltà letteraria, di artisti, ingegni poetici, animi sensibili eredi di una storia antica, di un glorioso medioevo, di un fervido umanesimo, di un lucente rinascimento e uno splendido barocco. Gente che nonostante il caldo, la ressa, va a farsi la sua dose di libri, pensieri e letteratura.
D’estate finalmente possiamo citare la parola festival senza associarla automaticamente a Sanremo. Anzi la differenza tra il semestre uggioso e il trimestre solare – almeno al centro-sud – è nell’uso divergente della parola festival: nel primo caso fatuo, nel secondo colto.
Da questa premessa avrete capito che i festival del libro, le rassegne in piazza, la cultura che va su strada sono a mio parere un fatto positivo per l’Italia e gli italiani, per il paese e i paesani, per i turisti e i visitatori. Anche quel retrogusto di festa patronale che di solito caratterizza i festival in provincia e soprattutto al sud, in fondo non guasta: il clima è analogo, la gente si scopre ex-voto di lettura, sul palco si esibisce la statua parlante del santo autore e il sacerdote che officia è l’intervistatore o il presentatore. L’effigie del santo autore è sui totem e nei poster. Le processioni rivivono nei firmacopie, i santini degli autori sono le copie autografe dei libri nell’edicola votiva allestita per lui; copie comprate per devozione prima che per amore di lettura. E poi la focaccia, il gelato, perfino lo zucchero filato, tutto come nelle saghe patronali. Mancano le giostre e i fuochi pirotecnici, ma ci sono surrogati mimici o verbali.
Riconosciuto il lato positivo di questi eventi, che bene o male avvicinano la gente ai libri, se non alla cultura, bisogna però riconoscere il lato negativo. Quel che avvelena i festival è purtroppo una brutta malattia contratta nei mesi invernali a casa: il festival visto come la continuazione in piazza del talk show televisivo. La differenza tra un festival di folla e un festival di modesto richiamo è data dalla presenza sul palco di un autore, un format, un cazzeggio come sul video. Ciò che decreta il successo rispetto alla routine è la presenza sul palco di un personaggio televisivo, un vip, un influencer, una star; anzi il successo più grosso non è tributato agli scrittori ma ai personaggi del video che si sono cimentati a scrivere, o farsi scrivere, un libro. Lì ti accorgi che non è la lettura il movente ma la scatola luminosa che hai a casa; non la qualità ma la notorietà; non il contenuto ma la riconoscibilità del personaggio e la familiarità del format in cui vieni immesso.
Alcuni festival, anziché usare la tv per promuovere il libro e la cultura, si consegnano alla tv, organizzano il podio in funzione dello spettacolo, passano al circo. A volte sfila una batteria d’autori, uno ogni mezz’ora, fa la sua gag, con l’animatore-presentatore che deve enfatizzare, liofilizzare e contenere il contenuto; solo assaggini, mai un pensiero compiuto e articolato, non c’è tempo, avanti un altro. Resta la maratona televisiva; tutto viene banalizzato e tritato in una specie di pappone a getto continuo, in cui non sai più che ha detto l’autore delle 21 rispetto a quello delle 21 e 30, e non sai distinguere tra il libro delle 22 e quello delle 22 e 30. Salvo magari il finale dove lo spettacolo prende il posto definitivo della cultura e parte lo show del personaggio-mattatore, l’one man show, che fa dal vivo quel che siamo abituati a vedere in tv. Che privilegio in diretta, live…Ma il libro, ormai è scomparso, non è più nemmeno un alibi.
Al rischio del festival come continuazione della tv con altri mezzi, si unisce il rischio di fare del festival un portatore del solito messaggio ideologico a senso unico. I temi sono sempre quelli del Racconto globale e permanente, che senti in tv, a cinema, a teatro, nei media: razzismo & migranti, femminismo & patriarcato, lgbtq+ e omofobi, pacifismo & nazifascismo. C’è a tal proposito una compagnia di giro che a volte monopolizza i festival, orchestrata dai promoter e organizzatori dei festival, sostenuti da amministrazioni di sinistra e paraggi, o subite da giunte di centro-destra e da sindaci ignoranti, furbetti o sprovveduti, per tenersi buona quella fetta del paese. Ogni tanto ti mettono come alibi uno della legione straniera, magari in ore ingrate o giorni assurdi, ma serve per dire che loro sono pluralisti e democratici e non hanno colpa se non ce ne sono tanti di autori dall’altra parte. A volte invitano un ospite non di sinistra se devono chiedere soldi a una giunta locale o regionale di centro-destra. Ma la linea, il ricamo, lo storytelling è tutto dall’altra parte.
Insomma, alla fine della fiera, i festival culturali, le rassegne librarie all’aperto, sono comunque un fatto positivo per un paese che legge sempre meno, pensa ancor meno, e perde intelligenza critica a ogni curva. Ben vengano i festival letterari, soprattutto se non cedono al talk-show e al woke prefabbricato. E adesso sfogliami, se mi vuoi possedere. La Verità – 24 luglio 2024