È una realtà non troppo lontana nel tempo, ma che l’imperante pensiero unico e «politically correct», del piagnisteo autocolpevolizzante, ha di fatto rimosso: la tratta barbaresca degli schiavi.
Era il commercio degli schiavi bianchi che fiorì negli Stati dell’Africa settentrionale, gli attuali Algeria e Tunisia, ed in misura minore Marocco e Tripolitania (Libia), tra il XVI ed il XIX secolo. Tali Stati erano nominalmente sotto il dominio turco-ottomano, ma in realtà sostanzialmente autonomi. Il mercato degli schiavi nordafricano commerciava schiavi europei. Questi – uomini, donne e bambini – venivano catturati dai corsari barbareschi sulle navi e sulle città costiere di città italiane, spagnole, portoghesi, francesi, inglesi, dei Paesi Bassi, fino ad arrivare in Islanda; a causa dell’entità di queste azioni un gran numero di città costiere, specie in Italia, la più colpita, data l’estensione delle sue coste, vennero abbandonate.
Ci furono più europei ridotti in schiavità che neri mandati in ceppi nelle Americhe. Nella mente dei bianchi di oggi, questo tema non ha comparazione con la triste vicenda degli schiavi neri e neppure viene evocata en passant a proposito di attività terroristiche maghrebine. Tuttavia non si trattò di una pagina breve e neppure carente d’importanza. La storia della schiavitù nel Mediterraneo risulta sinistra come le descrizioni più radicali e crudeli della schiavitù americana.
Il professor Robert Davis, che insegna storia alla Ohio State University, ha descritto nel 2003, in un ponderoso e documentatissimo volume, “altra schiavitù”, cioè la tratta bianca degli schiavi, minimizzata dalla gran parte degli storici moderni, in: Christian Slaves, Muslim Masters: White Slavery in the Mediterranean, the Barbary Coast and Italy, 1500-1800. Davis stima che, solamente da parte di schiavisti di Tunisi, Algeri e Tripoli, 1–1,25 milioni di bianchi cristiani europei vennero schiavizzati dall’inizio del XVI secolo alla metà del XVIII (questo numero non tiene conto degli europei fatti schiavi dal Marocco ed altri assalitori delle coste del Mediterraneo). Oltre a 700 americani che vennero fatti prigionieri in questa regione tra il 1785 e il 1815. Le statistiche doganali del XVI-XVII secolo suggeriscono che un ulteriore apporto di schiavi importati da Istanbul e dal Mar Nero può far ascendere il totale a 2,5 milioni dal 1450 al 1800.
I corsari barbareschi e maltesi compirono sin dall’Alto Medioevo incursioni per ottenere schiavi e poi rivenderli a mercanti europei, in special modo i Radaniti, mercanti ebrei che svolsero un ruolo fondamentale negli scambi mercantili di prodotti rari e di lusso tra il mondo cristiano e quello musulmano, uno dei gruppi che si poterono sempre facilmente muovere tra i mondi cristiani ed islamici. I registri della partecipazione ebraica agli scambi di schiavi risalgono al V secolo. Mercanti musulmani ed ebrei portarono schiavi in Andalusia dall’Europa Orientale e dalla Spagna cristiana e poi spesso li riesportarono in altre regioni del mondo islamico.
Storicamente gli ebrei possedevano e commerciavano schiavi. Sono state pubblicate numerose opere di ricerca storica per controbattere ad uno dei temi propagandistici dell’antisemitismo – quello che vuole un dominazione ebraica nel commercio degli schiavi durante il Medioevo nel continente europeo, in quello africano e nelle Americhe – in quanto gli ebrei non ebbero un impatto particolarmente significativo o continuo sulla storia della schiavitù nel Nuovo Mondo. Jason H. Silverman, storico della schiavitù (Unwelcome Guests: Canada West’s Response to American Fugitive Slaves, 1800–1865, Millwood, N.Y.,1985 ecc.) descrive la parte svolta dagli ebrei nel commercio degli schiavi negli Stati Uniti meridionali come marginale, facendo notare che l’aumento storico prima, e la caduta della pratica schiavista poi, nel profondo Sud non avrebbe influenzato gli ebrei in quanto essi non vivevano allora nel Sud americano se non in numeri minimi. Gli ebrei rappresentarono l’1,25% di tutti i proprietari di schiavi meridionali e non furono significativamente differenti dagli altri proprietari di ceppo cristiano nel trattamento dei loro servitori forzati. (Cfr. Isidore Singer, Joseph Jacobs, Slave Trade, in: The Jewish Encyclopedia, New York City, 1906).
Il culmine dello ‘schiavismo dell’europeo’ fu però, più tardi, tutta l’area mediterranea, dal primo Cinquecento sino agli albori del XIX secolo, segnata in maniera marcata dalle imprese predatorie dei corsari barbareschi che ebbero le loro principali basi operative nelle reggenze di Tripoli, Tunisi e Algeri. Proprio per la sua collocazione geografica, al centro del Mediterraneo, fortissimo fu il coinvolgimento dell’Italia. Per più di tre secoli le popolazioni costiere della Penisola dovettero convivere con la costante minaccia di improvvise e cruente incursioni dal mare. Predoni che rubavano, uccidevano senza pietà, si portavano via giovani e bambini. Il pericolo, comunque, non era limitato a coloro che vivevano sul litorale. Bastava, infatti, che un individuo avesse la necessità di viaggiare per mare perché potesse divenire, a sua volta, vittima di un arrembaggio barbaresco. Occorre considerare che all’epoca quasi non esistevano strade e che i lunghi percorsi si effettuavano sempre per mare. Ad esempio, per recarsi da Torino, o Genova in Toscana, a Roma o Napoli non esisteva praticamente che la via marittima.
A pagarne le conseguenze furono decine di migliaia di persone che, catturate, vennero poi trasferite nel Maghreb o in qualche altra località del Levante, dove furono trattate non come prigionieri di guerra da liberarsi alla fine di ogni conflitto, ma con crudeltà, come schiavi a vita, in quanto provenienti dal mondo degli “infedeli”. In un quadro di totale contrapposizione religiosa, il cristiano caduto in mano dei musulmani non avrebbe mai potuto tornare libero ed ancor meno rientrare in patria. Ovviamente si poteva sempre tentare la via della fuga (ma dove ?) a rischio di crudeli, atroci punizioni, ma pochi provarono ad evadere ed ancor meno furono quelli che ci riuscirono. Oppure ci si poteva convertire al credo islamico del pirata, rinnegando la propria fede.
Naturalmente ciò succedeva in alcuni casi. Tra i quali il famoso calabrese Uluj Alí (1519, Calabria – 1587, Turchia), cioè Giovanni Dionigi Galeni di Le Castella, figlio del marinaio Birno Galeni e di Pippa de Cicco. Nel 1536, a 17 anni, il ragazzo venne destinato ad un Seminario per diventare prete. Ma già in aprile cade prigioniero dei pirati barbareschi, di Alí Ahmed, uno dei capitani del Barbarroja. Giovanni fu venduto a Cafer Rais, un corsaro musulmano anch’egli di origine calabrese. Divenne, dopo vari anni, uno dei migliori comandanti turchi del suo tempo, brillando quale corsaro abile e spietato e come ammiraglio della flotta ottomana a Lepanto, nel 1571. In detta battaglia comandò il fianco di sinistra e fu l’unico a rientrare a Costantinopoli.
Cervantes lo menziona nel Don Quijote: «Uchalí, che chiamavano Uchalí Fartax, che in turco vuol dire ‘el renegado tiñoso’, ebbene questo questo ‘tignoso’ remò sulle galere per 14 anni: avendone già 34 rinnegò la sua Fede e tale fu il suo valore che divenne poi ammiraglio e re di Algeri».
Si poteva, infine, sperare di por fine alla propria schiavitù mediante uno scambio di prigionieri, cosa che solo raramente avveniva. La via più seguita per il recupero della libertà ed il ritorno in patria fu quella del riscatto. I barbareschi erano disposti a rilasciare lo schiavo cristiano dietro il pagamento di una consistente somma di denaro. Ciò rispondeva ad una precisa logica economica. In effetti i predoni maghrebini considerarono i cristiani caduti nelle loro mani non tanto una forza di lavoro da sfruttare, quanto un possibile strumento di rapido arricchimento monetario. Non si mancò certo di imporre agli schiavi, soprattutto se giovani e prestanti, lavori che comportavano un notevole logorio fisico, ed alle fanciulle la via del bordello o, in caso di particolare avvenenza, degli harem…
Così molti cristiani furono impiegati come vogatori sulle navi; non pochi furono destinati alle miniere, alle cave o all’attività edilizia; altri ancora furono adibiti alle fatiche dei campi…Ma il loro utilizzo concreto venne normalmente considerato temporaneo, giacché nell’ottica barbaresca gli schiavi dovevano in primo luogo essere trattati come una merce dalla quale trarre il massimo profitto possibile, favorendone il rientro in patria attraverso il versamento di un cospicuo riscatto.
Se i ricchi potevano riscattarsi da soli, pagando di tasca propria alla controparte cifre spesso spropositate, problematica era la situazione dei più, che ricchi non erano, ai quali non rimaneva che sperare in un qualche intervento della carità pubblica.
‘Proprio per rispondere ad una simile necessità in Italia (ma il fenomeno interessò più o meno tutta l’Europa) furono fondate e si svilupparono numerose compagnie dette “del riscatto” in quanto finalizzate alla raccolta di denaro da impiegarsi per la liberazione a pagamento di coloro che il linguaggio del tempo indicava come “prigioni del Turco infedele”. Tali associazioni costituirono la principale risposta solidaristica che l’occidente cristiano seppe approntare a fronte della deportazione coatta in terra islamica di svariate migliaia di persone predate per mare o catturate sulla terraferma dal nemico barbaresco. In Italia tali istituzioni vennero a costituirsi a partire dal Cinquecento conoscendo poi un incremento eccezionale tra il Sei ed il Settecento in connessione con il massimo esplicarsi dell’attività predatoria. Attraverso la raccolta di un’ingente quantità di denaro (frutto di collette, elemosine, donativi e lasciti testamentari), tali istituzioni costituirono così un anello rilevante per l’approntamento di quello scambio denaro/uomo su cui si fondava buona parte dell’impianto economico della corsa barbaresca. Ciò spiega la loro capillare diffusione in tutte le regioni italiane. Una delle più precoci fu la confraternita di Santa Maria del Gesù della Redenzione dei Cattivi (ove il termine “cattivi”, derivato dal latino captivi, è da intendersi come “schiavi”), fondata a Napoli nel 1548. A Roma papa Gregorio XIII, nel 1581, affidò all’Arciconfraternita del Gonfalone la raccolta di denaro per il riscatto dei sudditi pontifici prigionieri in mano musulmane. In Sicilia fu attivissima, sin dal 1595, la palermitana Arciconfraternita per la Redenzione dei Poveri Captivi. Nei decenni successivi confraternite per il riscatto si costituirono anche in tutta l’Italia centro-settentrionale da Trento a Bologna, da Ferrara a Milano, da Torino a Parma ecc. Nel Granducato di Toscana, alla metà del Seicento, ad una prima compagnia redentrice, sorta a Firenze nel 1598, si affiancò per impulso dei Trinitari una fitta rete di sodalizi che operarono a Livorno, Pisa, Pistoia, Carrara ed in varie altre località, e tale indirizzo fu seguito anche nella Repubblica di Lucca. Del tutto particolare fu il caso della Repubblica di Genova dove, preso atto del drammatico moltiplicarsi del numero dei sudditi prigionieri in Africa Settentrionale, nel 1597 si decise di affidare ad un’apposita istituzione governativa (il Magistrato del Riscatto) ogni pratica finalizzata alla loro liberazione. Anche a Venezia la gestione dei riscatti fu affidata ad un ente governativo (i Provveditori sopra ospedali) affiancato dall’importante Scuola della Santissima Trinità, istituita nel 1604 nella chiesa di Santa Maria Formosa. Vi furono periodi, nella prima metà del Settecento, in cui la Serenissima delegò esclusivamente all’Ordine Trinitario il compito di provvedere al riscatto dei propri sudditi’.
Alcuni sodalizi ebbero la capacità di organizzare dei grandi riscatti collettivi, inviando a Tripoli, Algeri e Tunisi proprie specifiche missioni.
‘ Comunque, il compito di chi materialmente doveva poi intavolare le trattative con la controparte non fu mai facile. I criteri e le priorità seguiti dalle autorità barbaresche non erano infatti sempre conciliabili con i programmi dei redentori. Ad esempio, di sovente i barbareschi cercavano di imporre il riscatto di elementi vecchi o inabili rifiutandosi al contempo di soddisfare richieste concernenti persone che, per età o per professione, risultassero non cedibili dai loro proprietari. I prigionieri liberati, trascorso in isolamento il necessario periodo di quarantena sanitaria, venivano alla fine accolti trionfalmente nella loro città da cui mancavano da anni e talvolta da decenni. In loro onore le compagnie del riscatto organizzavano solenni cerimonie consistenti per lo più in lunghe processioni a cui concorreva una folla strabocchevole desiderosa di rivedere e di salutare concittadini la cui liberazione dalla tremenda prigionia in terra islamica aveva i contorni del miracoloso. Il corteo per solito si concludeva nella sede stessa della confraternita redentrice che, per l’occasione, poteva raccogliere tra il folto pubblico consistenti donazioni ed elemosine, proprio sulla scia del riscatto felicemente concluso’. (Cfr. La storia dimenticata: il riscatto dei cristiani schiavi dell’Islam. Le Compagnie del riscatto. Una pagina dimenticata del rapporto tra Europa e mondo musulmano, in http://www.centrostudifederici.org/la-storia-dimenticata-il-riscatto-dei-cristiani-schiavi-dellislam).
In memoria di quei terribili tempi basterebbe osservare la facciata della Chiesa di San Juan de los Reyes, a Toledo (ma ce ne sono altre), con 220 paia di ceppi in ferro, d’incerta datazione, ma che dovrebbero ricordare i secoli nei quali erano i bianchi europei ad essere le vittime…
Il congresso di Vienna del 1815 portò ad un maggior consenso europeo sulla necessità di porre fine alle invasioni barbaresche. Il saccheggio di Cagliari da parte di uno squadrone tunisino, il quale rapì 158 abitanti, provocò un’estesa indignazione. La Gran Bretagna aveva già bandito il commercio degli schiavi e stava cercando d’indurre anche altri Paesi a fare altrettanto. Per poter continuare la campagna a favore dell’abolizionismo, nel 1816 gli inglesi inviarono una piccola flotta al comando di Edward Pellew, visconte di Exmouth, per farsi garantire nuove concessioni da Tripolitania, Tunisia ed Algeria (soprattutto), tra cui un impegno a trattare i prigionieri cristiani in qualsiasi futuro conflitto come prigionieri di guerra anziché come schiavi. Durante questa sua prima visita Exmouth riuscì a negoziare trattati soddisfacenti, quindi se ne ritornò in patria.
Gli algerini massacrarono poco dopo circa 200 pescatori tra Corsi, Siciliani e Sardi che erano sotto la protezione britannica e, quindi, il governo di Londra rimandò in missione Exmouth con una richiesta di riparazione. Il 27 agosto, in combinazione con uno squadrone olandese, Exmouth diede il via al bombardamento di Algeri, nel quale furono impegnate ventisette navi, compresi cinque vascelli di linea poderosamente armati: a seguito di ciò egli riuscì ad ottenere nuove concessioni, sia da parte degli algerini che dei tunisini. A seguito del bombardamento furono liberati quasi 3,000 europei e venne firmato un nuovo trattato che aboliva la schiavitù degli europei.
Gli Stati barbareschi ebbero, però, delle difficoltà a garantire una accettazione generalizzata al totale divieto della schiavitù, in quanto il commercio schiavista era sempre stato tradizionalmente d’importanza centrale per l’economia nordafricana. I mercanti arabi e maghrebini continuarono a catturare prigionieri rivolgendosi a popoli meno protetti; successivamente Algeri rinnovò le sue incursioni schiaviste. Al Congresso di Aquisgrana (1818) gli europei discussero su di una possibile ulteriore rappresaglia. Nel 1820 una flotta britannica, sotto la guida dell’ammiraglio Harry Burrard-Neale, bombardava nuovamente Algeri.
L’attività schiavista dei pirati arabi maghrebini non cessò interamente fino all’Invasione di Algeri (1830) ed all’istituzione dell’Algeria francese.
(Cfr. Philip Gosse, Storia della pirateria, Bologna, Odoya 2008; https://www.elmanifiesto.com/articulos.asp?idarticulo=4449; Milena Rampoldi, I Corsari. Mediterraneo barbaresco, Ottomani ed Europa, Cerro Maggiore, 2013; https://it.wikipedia.org/wiki/Tratta_barbaresca_degli_schiavi).
* già ambasciatore d’Italia in El Salvador e Paraguay