Secondo il “Trust Barometer” di metà anno, pubblicato da Eldeman, rapporto che misura la fiducia nelle istituzioni a livello globale, i dipendenti sono considerati gli stakeholder più importanti delle aziende per il successo a lungo termine, tre volte più importanti degli azionisti. Il 40% degli intervistati considera i dipendenti il gruppo più importante per il successo di un’azienda, mentre solo il 12% afferma lo stesso degli azionisti. L’attenzione nei confronti dei dipendenti porta comunque benefici agli azionisti.
Come dimostrano infatti vari studi in materia, soddisfare le esigenze dei dipendenti incide positivamente sull’aumento della redditività delle aziende (con percentuali che possono arrivare al 21%).
Poiché i dipendenti esercitano sempre più pressioni sulle loro aziende per sostenere pubblicamente questioni che vanno dal diritto di voto a salari equi, il modo in cui i datori di lavoro scelgono di schierarsi può avere implicazioni di ampio respiro. Nel contempo forte è la richiesta che anche gli amministratori delegati siano responsabili, venendo riconosciuti come soggetti affidabili dagli stessi lavoratori (secondo il rapporto, circa il 77% crede che il proprio datore di lavoro sia l’istituzione più affidabile, più del governo, quotato al 56% e dei media, al 51%).
Il “Trust Barometer” è utile per “fotografare” la realtà e gli orientamenti in atto, che però – a ben guardare – non sono storicamente una novità. Da una quindicina d’anni, grazie all’impulso dell’imprenditoria cattolica, il progetto “Responsabilità Imprenditoriale per il Bene Comune” (RIBC) è andato articolandosi, seppure in modo disomogeneo, a livello aziendale e territoriale. Alla base la consapevolezza che la Responsabilità Sociale di Impresa (o CSR – Corporate Social Responsability) definita, a suo tempo, come l’ “Integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”, non si diffonda abbastanza presso le aziende. D’altro canto c’è la constatazione che, nella realtà, si possono individuare numerosi esempi positivi di “buone pratiche”, realizzate da aziende che sono impegnate a coniugare l’economicità della gestione con il perseguimento di finalità “sociali” a beneficio dei dipendenti, della comunità e dell’ambiente.
La partita si gioca sul rapporto etica ed economia, finalmente declinato sul piano operativo e liberato dal vecchio determinismo di classe e dal mero economicismo.
Secondo il “Rapporto 2020 – Welfare Index PMI” presentato a settembre da Generali, l’emergenza Coronavirus ha impresso un salto di qualità al welfare aziendale: per la prima volta quest’anno le imprese attive superano il 50%, il 79% ha confermato le iniziative di welfare in corso e il 28% ne ha introdotte di nuove o potenziato quelle esistenti.
La crisi sta cambiando la cultura di gestione dell’impresa: il 91,6% delle PMI ha infatti dichiarato di avere acquisito più consapevolezza dell’importanza centrale della salute e della sicurezza dei lavoratori e oltre il 70% ha affermato che in futuro il welfare aziendale avrà maggior rilievo. Infine, il 65% ha dichiarato che l’azienda contribuirà maggiormente alla sostenibilità del territorio in cui opera.
A conferma della vivacità su questo fronte, è arrivata la pubblicazione del primo rapporto nazionale sul welfare nelle piccole e medie imprese, promossa da Generali Italia con la partecipazione di Confagricoltura e Confindustria e condotta da Innovation team: un’indagine che offre un quadro interessante su un aspetto ancora “poco indagato”, perché troppo spesso il welfare aziendale è considerato “appannaggio” delle grandi imprese, quelle che hanno “i numeri” e le potenzialità di investimento – oltre che la volontà del management – per mettere in campo azioni significative in questo senso, dall’attivazione di convenzioni per l’accesso ai servizi sanitari ai bonus dedicati ai familiari dei dipendenti.
L’indagine ha messo in evidenza come il 21 per cento delle Pmi abbia attivato rilevanti iniziative nel campo della conciliazione vita e lavoro – dal sostegno alle pari opportunità a quello alle neomamme e ai neopapà – mentre solo il 10 per cento sono attive principalmente nell’area dell’integrazione sociale e si fanno carico di iniziative di welfare allargate al territorio; rappresentano il 10 per cento anche le imprese che hanno messo in campo iniziative concentrate soprattutto nel settore delle risorse umane e del fringe benefit, ovvero tutti quei beni e servizi che rappresentano elementi complementari alla retribuzione accessoria. Se diverse sono le scelte, diversi sono anche gli approcci: il 48 per cento delle aziende che attuano azioni di welfare – indicate come “attuatrici” – applicano quanto già previsto dai contratti nazionali, mentre le altre si mostrano “creative” nell’adottare soluzioni nuove.
Questo insieme di ricerche conferma la crescita di una nuova sensibilità da parte delle aziende nei confronti dei lavoratori. E’ una tendenza che va assecondata, con appositi sgravi fiscali, ed “incalzata” sul piano dei nuovi diritti sociali. A cominciare dal coinvolgimento diretto dei lavoratori nella gestione delle imprese: uno strumento essenziale per rafforzare la cosiddetta “fidelizzazione” produttiva ed il conseguente processo d’integrazione/partecipazione. Oltre il welfare aziendale c’è di più.