España 82, puro amarcord. Indelebile nell’immaginario italiano. Italia-Germania 3-1, l’11 luglio 1982. Stadio Santiago Bernabéu di Madrid. Un popolo intero davanti alla televisione per la cronaca di Nando Martellini, puntuale nel celebrare una squadra epica con uno stile sobrio, distante anni luce dall’attuale vulgata alla Fabio Caressa. Un paese intero rispolvera l’antico blasone grazie alle prestazioni del gruppo di giovani eroi lanciati dal ct Enzo Bearzot quattro anni prima in Argentina ed esplosi nel crescendo iberico.
Dopo il trionfo spagnolo gli anni di piombo appaiono finalmente più distanti, nonostante i colpi di coda del brigatismo. Anche le pagine della cronaca nera, con la misteriosa morte del banchiere Roberto Calvi sotto un ponte londinese, passano in second’ordine. Il mantra è uno solo. Quello della formazione azzurra, recitata come una poesia in tutte le piazze dello Stovale: “Zoff, Bergomi, Cabrini, Gentile…”. La numerazione delle maglie va dall’1 all’11. Le donne dei calciatori non sono veline, ma persone comuni. Simonetta, moglie di Paolo Rossi, è in cinta. Niente Mondiali, resta a Vicenza. Rita Antognoni lavora in un negozio e il fine settimana va a fare una scampagnata con il bambino a Forte dei Marmi. Non c’è spazio per “wags”. Altro che le piazzate alla Raffaella Fico. Il sesso per i calciatori è un segreto di Pulcinella: tutti sanno del via vai di squillo negli alberghi delle nazionali. Il fenomeno non scandalizza nessuno. Beppe Viola può permettersi di scherzare sui gay in Nazionale con Ciccio Graziani (la replica alla Cassano: “non ne ho visti. Qui se danno tutti da fa’…”).
La vittoria dell’82 libera le energie dell’Italia globale, esalta la vocazione imperiale postulata negli scritti di Berto Ricci e nelle raffinate trame geopolitiche di Enrico Mattei. Il calcio diventa la sublimazione di una nazione che tira su la testa, sbaraglia i critici, rigenera campioni ammaccati come Paolo Rossi, sconfigge tutte le favorite: l’Argentina di Dieguito, il Brasile di Zico, la Germania di Rumenigge. Così Marco Tardelli diventa una icona, il suo urlo dopo il secondo gol ai tedeschi è la vera liberazione, dai troppi complessi dovuti ad un dopoguerra di marca postcoloniale.
Il calcio, grazie all’epopea madrilena, in Italia non può più essere oggetto di disamine snobistiche da sinistra. Consolida il rango di “rappresentazione sacra del nostro tempo” nella quale spiccano tanti giganti. Il portiere Dino Zoff, un mastino come Claudio Gentile – in grado di immobilizzare in campo di fila Zico, Maradona, Littbarski -, un difensore completo come Gaetano Scirea, mix di classe, eleganza e tempismo. Poi ci sono i baffi di Beppe Bergomi, che nascondono uno sguardo da diciottenne, la maschera grintosa di Oriali, i guizzi di Bruno Conti… Infine c’è Paolo Rossi, Pablito, capocannoniere della competizione. Anzi Paolorossi, neologismo pop intercettato dalla prosa letteraria di Davide Enia che ne celebra la tripletta contro il Brasile.
A Madrid sulle tribune risalta anche il protagonismo di Sandro Pertini, presidente della Repubblica. Contro i consigli di tanti (anche per lui incombeva il rischio di “portare jella” qualora non si fosse vinto), decise di essere allo stadio accanto a Juan Carlos. E non si contenne. Esultò liberamente, senza la goffaggine della Merkel, ma con una genuina naturalezza che lo fece entrare nel cuore degli italiani meglio di tanti retorici discorsi alla nazione.
* dal Secolo d’Italia di domenica 8 luglio 2012