Ricercatore universitario e docente di Storia medievale a Catania, la federazione etnea di FdI ha puntato tutto su Marco Leonardi per la guida del dipartimento Cultura e Formazione. Un settore spesso poco coccolato dalle formazioni di centrodestra, ma tuttavia fondamentale per la definizione di una classe dirigente che sia allo stesso tempo competente e ancorata a dei valori che superino le scadenze elettorali. 43 anni di età e un curriculum da tolkieniano di razza, Barbadillo lo ha incontrato per conoscere quali siano gli ingredienti del suo programma di lavoro.
Formazione, cultura e partiti. Quale spazio di manovra c’è?
Ho vissuto e vivo la mia intera esistenza in funzione dell’ideale romantico della Bildung, di quella formazione permanente senza la quale la vita verrebbe sprecata, senza mai avere obbiettivi o finalità precise. Lei ricorda il famoso refrain della canzone «Vita spericolata» di Vasco Rossi (1983), che chiedeva una vita….di quelle vite fatte, fatte così, che se ne frega di tutto sì…?
Diciamo di sì.
Bene, nulla di più fuorviante! Vorrei che ogni singolo componente o simpatizzante di FdI fosse una persona preparata e consapevole della ‘solidità’ del suo ruolo nella società ‘liquida’ in cui viviamo. Senza la cultura la politica si degrada a una squallida lotta per il potere. Senza la giusta competenza amministrativa, anche il più colto e formato tra i militanti cadrebbe nella inoperosità.
Come impedirlo?
Oggi gli strumenti a nostra disposizione per agire nonostante le norme anti-covid sono davvero tanti, basta solo saperli adoperare con intelligenza: dalle riunioni in modalità da remoto alle videoconferenze, dalle chatroom al proliferare di case editrici, riviste e fondazioni. Stiamo vivendo un momento davvero favorevole per dare una svolta al paese. Siamo in piena sintonia con il paese reale. Guai a non saper sfruttare a nostro vantaggio questo momento.
Qual è il pantheon di un partito che si dice conservatore?
Res familiaris conservari debet diligentia». Quando Cicerone nel De Officiis ammoniva a conservare con attenzione il patrimonio del proprio gruppo di provenienza, delineava, a sua insaputa, la prima e fondamentale mansione di chiunque ami definirsi conservatore: la cura scrupolosa e la trasmissione alle generazioni future del patrimonio materiale e ideale ricevuto in eredità dalle epoche del passato.
In altri termini, chi può definirsi conservatore?
Il termine vale per riferirci, in primo luogo ,al conservatorismo dei valori, ovvero alla tutela di tutti quei Valori, quelli con la «V» maiuscola, che nel corso dei secoli hanno reso possibile alla civiltà cristiana e occidentale di affermare il suo modello di società e di renderlo egemone su scala mondiale.
Esiste un pantheon di riferimento?
Onestamente, eviterei la parola «Pantheon»: termine ascrivibile ad un paganesimo imbalsamato e fuori dal tempo. Una volta individuati i “riferimenti conservatori” in valori quali la difesa della vita e dell’ambiente, la valorizzazione del territorio e dei suoi abitanti, la tutela del patrimonio artistico-culturale e la sua traduzione in benessere spirituale ed economico per quanti ne fruiscono, non devo aver paura di confrontarmi con le matrici culturali più svariate. Per padroneggiarle e renderle utili all’attuazione del progetto politico da noi sostenuto. E qui sta la differenza fondamentale rispetto a tutte le “mummificazioni” del passato.
In che senso?
Dobbiamo essere spregiudicati e capire che da tutto il patrimonio culturale del passato è possibile trarre nuova linfa per agire nel nostro presente e vincere ogni sfida.
Un esempio concreto?
Se devo difendere il piccolo commerciante dalla spietata concorrenza dei giganti dell’e-commerce quali Amazon, non rifuggo dalla lettura di Marx per comprendere i meccanismi dello sfruttamento operati dai grandi gruppi turbo‒capitalisti, senza mai tralasciare la lezione di Evola sulla unicità della civiltà tradizionale, alla quale devo anche la formazione della gloriosa civiltà della bottega, che ha visto trasmettere le attività commerciali a gestione familiare da una generazione a quella seguente.
Vogliamo i nomi!
Da Tucidide a Mommsen, da Agostino a Benedetto XVI, da Aristotele ad Heidegger, da Dante a Tolkien, da Sorel ad Accame, passando da Schmitt. Fare riferimento alle mille preziosissime diramazioni della cultura conservatrice non significa avere remore…
Quali remore?
Lancio una proposta alla dirigenza nazionale del partito: quando vogliamo stilare una pagina on line nella quale ogni iscritto a FdI possa indicare i riferimenti culturali a lui più graditi? Sarebbe oltremodo utile disporre di dati «in presa diretta» per pianificare, con successo, interventi successivi.
Esiste una via italiana al conservatorismo?
Una tale via può esistere, a patto di non isolarsi mai. Nella fase attuale, una soluzione italiana che non si relazioni con stati ed economie molto più forti della nostra la escluderei del tutto. Sarebbe una catastrofe per la nostra amatissima patria! Il mondo globale nel quale, volenti o nolenti, oggi viviamo, necessita della capacità di fare comunità tanto con i nostri ‘vicini’ europei quanto con chi difende i valori del conservatorismo ai quattro angoli della terra. Chi ha mai detto che gli scritti di Giovanni Gentile non possano essere studiati e valorizzati tanto negli Stati Uniti quanto nella Federazione Russa?
Infatti.
Per “via italiana al conservatorismo” suggerirei di valorizzare tutte le belle peculiarità italiane che oggigiorno sono letteralmente scomparse dal mondo. Se penso a quanto terreno abbiamo perduto nel tessile e nella moda…Occorre fare ritrovare nuovamente agli abitanti della nostra penisola l’orgoglio di sentirsi italiani. Qualcuno vorrebbe spiegarmi, ad esempio, perché usare sempre e comunque parole straniere conferisce un tono più chic a qualsivoglia cosa? Perché mai «location» suona sempre più bello che non «sede»? Perché l’uso della lingua italiana oggi conferisce una patina di provincialismo a qualsivoglia evento o struttura? Auspico che la formazione culturale possa generare una controtendenza rispetto alla deriva che passivamente accettiamo.
FdI ha le carte in regola per poter formare una classe dirigente di alto profilo?
Sarebbe troppo comodo rispondere positivamente alla sua domanda. La captatio benevolentiae è quanto di peggio possa adottare un serio funzionario di partito. La gestione del partito nel biennio 2021-23 sarà di importanza decisiva per il futuro di FdI. E del nostro paese. Azzardo un pronostico…
Coraggio.
Qualora FdI riuscirà a formare continuativamente tanto dirigenti quanto simpatizzanti all’insegna della cultura e della concretezza politica, il sorpasso sulla Lega di Salvini e su quanto rimane di Forza Italia potrebbe essere un traguardo alla nostra portata. La formazione culturale deve essere permanente e in continuo aggiornamento.
Le ricordo le parole di Pound: «L’unica cultura che riconosco è quella delle idee che diventano azioni». Hanno ancora un peso?
Non c’è bisogno di ricordarmele. Sarebbe bello se ogni singola persona vicina al nostro mondo mettesse in pratica questa massima tanto esigente.
@barbadillo
“…la difesa della vita e dell’ambiente, la valorizzazione del territorio e dei suoi abitanti, la tutela del patrimonio artistico-culturale e la sua traduzione in benessere spirituale ed economico per quanti ne fruiscono…”: sono d’accordo con questo docente dell’Università di Catania. C’è però una cosa che vorrei aggiungere, e cioè che a mio avviso non può esserci conservatorismo se, oltre a sostenere la conservazione di valori e tradizioni, non viene sostenuta anche la conservazione dell’identità etnorazziale del proprio paese, ovvero del patrimonio genetico e biologico della sua popolazione. Elemento quest’ultimo minacciato dalla nostra denatalità e dalla contemporanea immigrazione massiccia di elementi africani e asiatici, che inevitabilmente comporta lo snaturamento etnorazziale della Nazione. La difesa della Stirpe, dunque. Non si può essere conservatori limitandosi a sostenere che l’immigrazione regolare è meglio di quella clandestina, perché il problema sull’immigrazione non è solo qualitativo, ma anche e soprattutto quantitativo. L’immigrazione è sostenibile solo se regolare, limitata, circoscritta e assimilabile, altrimenti è un fenomeno dannoso. Anche perché, non è l’immigrazione clandestina quella che minaccia l’identità nazionale (che però crea problemi di ordine pubblico e sicurezza), ma quella regolare, perché consente a gruppi consistenti di individui notevolmente distanti sul piano antropologico e culturale dalla popolazione autoctona, di potervi piantare radici e creare delle colonie etniche. E considerato soprattutto che gli immigrati sono più prolifici degli autoctoni, la loro assimilazione è impossibile, semmai è più facile che si verifichi la sostituzione etnica. Purtroppo decenni di egemonia culturale della sinistra – che specialmente dopo la Caduta del Muro ha subito una significativa metamorfosi, trasformandosi da marxista a liberalprogressista, da sovietista ad americanista, che include tra i suoi elementi l’immigrazionismo e il terzomondismo – ha fatto sì che il problema dell’immigrazione fosse affrontato in maniera sbagliata, privilegiando solo l’aspetto umanitaristico e mai quello utilitaristico. Sette sanatorie dal 1986 al 2012, di cui quelle del 2002 e 2009 fatte dai governi di centrodestra, sono un’enormità ed un modo irresponsabile di affrontare il problema migratorio.
Forse non sarebbe male partire da una linea ideale Massimo d’Azeglio, Giovanni Giolitti, Luigi Einaudi, Malagodi…