Cacciato il cattivone, il calcio tricolore è salvo. Così sembra pensarla il direttore della Gazzetta dello Sport, Andrea Monti, che al “caso Delio Rossi” ha dedicato un trombonesco editoriale in prima pagina, grondante perbenismo e moderazione pelosa. L’esonero dell’allenatore da parte della Fiorentina non è invece bastato al padre di Adem Liajic, Satmir, che probabilmente sentendo odor di soldi facili si è precipitato dalla Serbia in Italia per sporgere denuncia contro l’ex tecnico di Palermo e Lazio. «Nessuno può picchiare mio figlio», ha tuonato il paparino serbo, che a giudicare dagli esiti deve aver fatto un certo risparmio di sganassoni durante la fase educativa del suo tesoruccio.
Buoni anche i Della Valle, proprietari della Fiorentina, che già dieci minuti dopo l’accaduto avevano istituito un processato sommario all’allenatore romagnolo: colpevole e licenziato. Altro che uomo giusto per il progetto di rilancio viola: l’hanno liquidato senza neppure aspettare una spiegazione. Salvo poi ripulirsi ponziopilatescamente coscienza e immagine mettendo il bulletto serbo fuori rosa.
Intendiamoci, Rossi ha sbagliato e lo ha ammesso per primo. Siamo sicuri che un minuto dopo il fattaccio di mercoledì sera fosse già pentito e pronto ad affrontarne le conseguenze, come ha poi fatto in maniera responsabile. Di fronte a un simile gesto, quasi in mondovisione, anche per la famiglia DellaVallec’erano poche alternative. E la squalifica di tre mesi appare persino pietosa, nel senso che la giustizia sportiva sembra non aver voluto infierire (contro Delio e contro il quarto uomo che ha fatto finta di non vedere nulla).
Rossi ha sbagliato, ma siamo certi che sia lui la parte malata del calcio? Che siano le reazioni come le sue, magari eccessive ma al tempo stesse vitali e passionali, ad allontanare la gente dagli stadi e dal football italico? Pensiamo davvero che il mondo del pallone, una volta ripulito da ultras e personaggi sanguigni alla Delio Rossi (ma se ne potrebbero citare molti altri), possa diventare quel paradiso sportivo vagheggiato dai soloni delle tivù e della carta stampata?
Se il calcio è lo sport più popolare al mondo e muove, oltre a miliardi di euro, pure l’interesse di miliardi di persone in carne e ossa, forse è proprio perché rappresenta lo specchio imperfetto della vita, e non uno spettacolo per telespettatori annoiati come il pattinaggio artistico o il curling. Non c’è bisogno di scomodare Desmond Morris per spiegare ciò che qualsiasi appassionato frequentatore di stadi sa bene fin dall’infanzia: il calcio non è affatto uno sport e tanto meno uno spettacolo, come vorrebbero imporci in questi tempi di playstation e grandifratelli. E’ una guerra simbolica in miniatura, uno scontro tribale che mette di fronte due clan con i rispettivi totem. Oppure, parafrasando von Clausewitz è la continuazione (simbolica) della guerra con altri mezzi.
Ma il calcio non è nemmeno divertimento, come qualsiasi tifoso potrebbe spiegare meglio di cento sociologi: chi va allo stadio per sostenere la squadra del cuore soffre, s’incazza, si sfoga, smoccola, si eccita e si deprime, passa nel giro di pochi minuti dall’esaltazione alla disperazione più nera. Altro che divertirsi. Se voglio divertirmi vado al cinema o guardo Zelig in tivù.
In realtà il calcio è soprattutto militanza, è passione. Una passione che talvolta assume connotazioni patologiche, ma comunque sincera. Ed è proprio questa passione che tiene ancora vivo l’interesse sul mondo del pallone, che altrimenti sarebbe già andato a fondo, zavorrato com’è dai debiti, dagli intrighi, dalle partite truccate e dai campioni dopati di quattrini e medicinali. Da presidenti cialtroni, procuratori arraffoni, calciatori viziati e giornalisti paraculi.
una volta tanto un allenatore non ha fatto finta di non sentire e di non vedere i capricci dei propri “campioni” strapagati, non ha dovuto indossare la sciarpetta dell’Unicef per motivi di contratto né concedere stucchevoli interviste davanti a uno sfondo pubblicitario. Ha mollato due cazzotti e ci ha riportato al calcio meno patinato ma anche meno fasullo dei vecchi tempi, quando le botte si davano e si prendevano in campo e fuori, obbedendo soltanto ai propri codici etici (magari sbagliati) e non allo sponsor di turno.
«Non bisogna certo amare il western per dire che il pugno di Delio Rossi merita rispetto. Nel saloon un bel cazzotto risolveva spesso le incomprensioni e noi pubblico stavamo tranquillamente dalla parte del buono (Rossi)». E’ il commento di Tonino Bettanini, esperto di comunicazione nel mondo della politica e delle istituzioni, che sintetizza ciò che pensa la maggior parte dei tifosi italiani, ma anche degli appassionati più tiepidi. E cioè che Delio Rossi ha sbagliato, ma in fondo in fondo ha fatto bene e comunque ha dimostrato più umanità e vitalità di cento Ljaijc, finora segnalato solo per aver ciondolato in campo e sbagliato un paio di rigori importanti per le sorti viola.
Paolo Di Canio, ex calciatore e allenatore per nulla ipocrita, e come tale poco simpatico alla stampa trombona e conformista, si è schierato dalla parte di Rossi, così come hanno fatto molti altri colleghi di panchina: «Quello che ha fatto ieri Ljajic è di una gravità unica: Rossi è un uomo che lavora 24 ore al giorno per il bene di una società che se fallisce il campionato fa fallire l’amore di una tifoseria. Di questo i giocatori non se ne rendono conto, non gliene frega niente. Ljajic è stato tolto dopo mezz’ora che camminava in campo, sul 2-0 per il Novara in casa, un ragazzino viziato che sbeffeggia l’allenatore. E’ una persona più grande di te, con più esperienza: non esiste. Il gesto di Delio Rossi è sicuramente crudo, cruento, ma succede a tutti prima o poi di perdere un attimo la testa». E pensare che il vecchio Delio deve averne di pazienza, visto che è passato indenne sotto le grinfie di presidenti gentiluomini del calibro di Lotito e Zamparini…