Usain Bolt s’è allenato con il Borussia Dortmund ed è già un profluvio di fiuti solleticati, di milioni di euro che sballottano su e giù sugli abachi del calcio, giù di lodi, scappellamenti (a destra e a sinistra). Il fenomeno dell’atletica leggera s’è fatto una sgambata con una delle più importanti squadre della Bundesliga. Mister Peter Stoeger non si sbilancia ma ha notato che “capisce gli schemi” anche se la sua difficoltà, spiega, sarà quella di passare da uno sport individuale a uno di squadra.
Da mesi il giamaicano, 31 anni, si sta impegnando per riconvertirsi al football. Sta girando come una trottola i ritiri di allenamento delle squadre più famose del mondo per tentare di darsi una chance pallonara. I precedenti non lo confortano. Passare a qualche altro sport, magari sì. Prima o poi, però, a Bolt una chance qualcuno gliela darà. Farà tanta panchina, tante dichiarazioni alla stampa, scenderà in campo a tempo scaduto. Insomma, come quando Gene Gnocchi si tolse lo sfizio di giocare con il Parma.
Se per giocare al calcio bastasse solo la corsa, a nessuno interesserebbe. La storia del pallone è piena di gente capace di marcare il campo da una bandierina all’altra, in ogni senso di marcia, più e più volte a partita. Epperò non basta. Ci vuole il talento, quello che ti fa vedere spazi, ti fa pennellare il pallone, ti fa volare a bloccare in cielo un meteorite sparato da centrocampo.
Insomma, l’avventura di Usain Bolt è una bella parentesi di un corridore a fine carriera che fa l’ambasciatore dello sport, ma che non diventerà mai un campionissimo. A dirla con termini d’una volta, è una simpatica americanata come quando – ricordate Rocky 3? – facevano sfidare i pugili con i lottatori di wrestling. Tutto bellissimo, pieno di lustri e paillette. Ma lo sport, e in questo caso il calcio, è un’altra cosa. Non basta saper correre. E non basta nemmeno un ottimo ufficio stampa.