In colpevolissimo ritardo, tantissimi auguri a George Weah. Cinquant’anni compie la Pantera francoliberiana, il cui nome è legato a filo doppio al Milan e al gol estorto al Verona, con una sgroppata irresistibile – potenza, classe e furbizia – che fece uscire il calcio africano dal limbo dell’esotico.
Prima di lui il pallone africano era (solo) un bel fenomeno di folklore. Una storia da Zagor più che da Gazzetta dello Sport. Certo, c’era stato il Camerun dei Leoni Indomabili, quello di Milla e compagni che incantarono, stregarono e fecero impazzire il mondo a Italia ’90. Eppure era rimasta lì, quell’esperienza ammantata da un alone di leggenda e magia che avvicinava l’exploit camerunense più a un riuscitissimo rituale di magia nera che a un’affermazione sportiva. Erano gli anni, quelli, degli africani “campioni del futuro”. Ah, se solo riuscissero a imparare tecnica e tattica. Nessuno li fermerebbe più. Erano gli anni ’90. E allora arrivò George Weah.
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Potenza, velocità e classe. Non si improvvisano. Se sei un bluff, prima o poi, ti si scopre. Puoi anche vincerlo quel maledetto Pallone d’Oro (anno domini 1995 quando fu, per la prima volta, aperto agli stranieri, per l’invidia di Diego Armando Maradona che fermato dal regolamento mai e poi mai riuscì a portarselo a casa) ma non è detto che resti nella storia (vero, Belanov?).
George Weah invece, percorrendo la via francigena che in Europa faceva sfociare il fiume pallonaro d’Africa, si incoronò “calciatore africano del secolo”. Classe, potenza e furbizia. Un cannoniere vero. Negli anni milanisti, Weah incarnò il mito della perfetta macchina atletica da gol immortalato anche nell’ultrapop pubblicità di un deodorante. E fece da perfetto apripista all’arrivo di Andriy Shevchenko, il pupillo del colonello Lobanovskiy, l’Ivan Drago del calcio moderno.
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Alla fine Weah ne fece quarantasei di gol, in maglia rossonera. Il più bello di tutti all’Hellas quando dimostrò che il calcio d’Africa era diventato maggiorenne e che la soave ciacola post-partita si sarebbe arricchita di accenti nuovi, ancestrali e mai sentiti finora.
Potenzialmente un cannoniere da tre reti a partita, sapeva farsi uomo squadra e calarsi nelle dinamiche dell’undici mettendosi spesso e volentieri a servizio dei compagni. Banalità da celebrazioni post-carriera? No, lui lavorò come un dannato sacrificando anche la sua stessa vena realizzativa. E forse per questo diventò un mito.
Auguri, Weah.
@barbadilloit