Esultanza contenuta, un grido liberatorio circondato da lacrime amare degli avversari e poi silenzio…il compagno di squadra infortunato in panchina non può andare a festeggiare con i compagni, allora corsa a recuperare l’infortunato Musonda per portarlo in braccio e condividere la gioia dei festeggiamenti con la sua nazionale che aveva dovuto abbandonare solo dopo pochi minuti di gioco: questo è il signor Hervé Renard. Ai molti sconosciuto, ma chi è appassionato di calcio lo ricorda, non per la sua somiglianza ad attori hollywoodiani, ma per aver intrecciato indissolubilmente il suo destino a quello del continente africano. Infatti, Renard è stato l’unico allenatore ad aver vinto due coppe D’Africa con due squadre diverse, Zambia (2012) e Costa D’Avorio (2015). Nonostante questo traguardo storico, ad oggi, però, non è l’allenatore più vincente della competizione perché preceduto da due mostri sacri come Gyamfi (Ghana) e Shehata (Egitto) che vantano nel loro palmares tre titoli iridati della competizione. Ma allora cosa è che lo rende così speciale?
Gli albori
Hervé Renard è un allenatore atipico, criticato e sottovalutato per via delle sue scelte e della sua carriera, sia da calciatore che da allenatore. Sì, perché da calciatore, pur avendo frequentato l’accademia del Cannes da cui sono sbocciati talenti come Zidane, non è mai esploso, è sempre rimasto un difensore di fascia medio-bassa. Si è tolto qualche soddisfazione riuscendo a giocare nelle nazionali giovanili U17 ed esordendo in Ligue 1, ma poi è stato costantemente risucchiato nel limbo delle serie inferiori. Serie inferiori che in qualche maniera, però, gli hanno restituito la luce dopo averlo inghiottito nel buio. Infatti dopo essersi ritirato a 29 anni per via di un infortunio al ginocchio inizia ad allenare il Draguignan dalla stagione successiva. In questo contesto ha la possibilità di mettere a frutto le sue idee di calcio, visto come un gioco di squadra in cui il mutuo soccorso, la solidarietà, la lealtà e l’abnegazione sono fondamentali, a volte anche più della tecnica stessa. Questi principi lo portano a lottare per avere una panchina anche a costo di essere sottopagato e dividersi la giornata con due lavori. Infatti un amico, che sarà fondamentale per la sua vita calcistica, tale Pierre Romero, gli consiglia di non dedicarsi esclusivamente al calcio, perché, a quei livelli, per poter vivere, conviene lavorare su più fronti. Detto fatto, Renard, che è intelligente come una volpe (Renard = volpe in francese), si apre una ditta di pulizie. Poco tempo dopo, lo stesso Romero, amico di Claude Le Roy, allenatore di grande esperienza e con una passione irrazionale e quasi erotica per l’Africa (definita da lui come un infinito orgasmo), fa da mediatore tra i due: Le Roy deve allenare in Cina e ha bisogno di un assistente, Renard cerca il salto definitivo per abbandonare la fatica scellerata del doppio lavoro e dedicarsi a pieno regime nel mondo del calcio. La Cina è un salto nel vuoto, ma lo fa con la consapevolezza che solo così può apprendere e vivere il suo sogno. Con una scelta di fede inizia la vera carriera da allenatore di Renard.
I tentativi e l’Africa
In Cina impara tantissimo e diventa la mente ed il braccio di Le Roy, che si fa sempre più da parte, a causa del mal d’Africa che gradualmente lo allontana da questo sport. Così iniziano i loro pellegrinaggi per il mondo, imbarcandosi anche in imprese titaniche come cercare di risollevare il
Cambridge UTD, scelta che sarà sempre controversa. Le Roy dirà di aver accettato l’incarico per far allenare Hervé, il quale non si è mai espresso a riguardo, se non con la sua consueta dedizione sul rettangolo di gioco. Fuori da quel rettangolo non vale nemmeno la pena prodigarsi; incanalare le energie per il raggiungimento dell’obiettivo sul campo sembra essere l’unico dogma incrollabile del francese.
L’ultima panchina condivisa con Le Roy si rivela essere la più importante, quella del Ghana. Non tanto per motivi tecnici, quanto per quelli sentimentali: Renard qui apprende la passione per l’Africa, per la sua storia, i suoi colori e la sua cultura. Inizia a germogliare in lui l’idea che in questo continente dovrà proseguire la sua carriera da allenatore. E lo fa svestendosi dell’aurea da colonialista, che inequivocabilmente i giocatori e gli spettatori gli attribuiscono, in virtù del suo essere bianco, ma soprattutto francese. Renard riesce a dimostrare con i fatti di essere un uomo impregnato di valori prima di essere francese, riesce a trasmettere il messaggio che niente è scontato e che tutto si raggiunge con il lavoro di squadra. Ecco perché nel 2008 viene scelto per guidare la nazionale dello Zambia e non disattende le aspettative: raggiunge i quarti di Coppa D’Africa (CAF) dopo un’astinenza durata 14 anni per i ragazzi “Chipolopolo”.
Due anni dura questa esperienza, poi si interrompe, ma con la promessa che non è finita. Renard gira ancora per l’Africa, prima Angola con la nazionale, poi Algeria con il club USM Alger. Due esperienze formative, ma brevi, in cui impara a saper riscrivere il proprio calcio partendo dalle sconfitte (9 V, 7 N e 9 S sommando i due cicli). Nel 2011, Bwalya, presidente della Federcalcio Zambiana e superstite della tragedia aerea del ‘93 a Libreville che coinvolse la nazionale dello Zambia, sceglie di riaffidare la panchina all’uomo che in qualche maniera aveva già posto le radici per scrivere la storia dei “proiettili di rame”.
Vittorie e delusioni
Il destino intreccia mirabilmente le sue trame e non lascia nulla al caso, così anche Renard si trova ad essere un tassello dell’incredibile mosaico che il fato sta scrivendo per lui. La coppa d’Africa si gioca in Gabon, nel 2012, e la finale è a Libreville. Vincere quella coppa significherebbe rendere giustizia ad una squadra ormai scomparsa nel fondo dell’oceano. Ma per Renard è molto di più , è dare dignità ad una nazione, esprimere la gioia e la bellezza del popolo che sta rappresentando.
Due momenti sono fondamentali in quella finale guadagnata con merito, dopo aver eliminato squadre come Sudan e Ghana: lo sguardo rivolto verso Drogba, il più forte avversario incontrato nel corso della rassegna; le preghiere dei giocatori a centrocampo durante i calci di rigore.
Sono emblematici questi due episodi perché raccontano Renard e il suo legame con il calcio, l’Africa e la squadra. Sa che Drogba è forte e può cambiare gli equilibri, ma proprio per questo va ad intimorirlo, a far capire che se la Costa d’Avorio ha già perso una finale e ne può perdere un’altra quella sera. La bellezza sta nel trasmettere questo messaggio con un’occhiata, con la calma di chi sa che comunque andrà, il suo lavoro l’ha svolto egregiamente: 4-4-2, linee compatte, fluidità, scambio di posizioni, aggressione alta del pallone e contropiede micidiali, sfuriate e richiami occasionali agli 11 in campo, qualche gesto di stizza e tanto coinvolgimento fuori dal campo. Il secondo punto invece riguarda il rispetto sacrale che ha per le tradizioni del posto in cui si trova, avrebbe potuto chiamare tutti intorno a sé e dar voce a quelle smanie di protagonismo che
spesso offuscano la mente degli allenatori, ma lui si eclissa, va in disparte e si fa travolgere dall’emozione del momento, perché sa che solo rispettando le tradizioni, la storia e la cultura del popolo che ti ospita puoi esserne veramente parte.
Così dopo un’estenuante lotteria di 18 rigori, lo Zambia vince la sua meritata CAF.
Dopo un trionfo di tale portata, Renard torna in patria per provare a replicare le gesta mostrate oltre confine.
Nemo propheta in patria
Non è ugualmente fortunato: Sochaux retrocesso all’ultima giornata dopo un esaltante girone di ritorno. Poca amarezza, perché consapevole di aver dato il massimo e che i suoi ragazzi si erano prodigati per raggiungere l’obiettivo. Ritorna, allora, a curare le sue ferite in Africa, dove bissa il successo della CAF, questa volta alla guida della Costa d’Avorio. Nazionale sempre favorita per sollevare l’ambito trofeo, ma anche costantemente vittima della paura del successo. Così, nuovamente ai calci di rigore, Hervé conquista il suo secondo trofeo continentale. Stessa mentalità, stessi principi, stesso calcio e la dea bendata che lo premia di nuovo, in qualità di uomo dell’Africa. Infatti, la stessa dea gli volta le spalle ogni volta che tenta di tornare in patria ad allenare, voltando le spalle alla sua nuova casa: risultati tutti fallimentari e conseguenti esoneri.
È un gioco dell’oca, va via dall’Africa per poi tornarci sempre, destinato a compiere grandi imprese. Questa volta è il turno del Marocco col quale sfata negativi miti e raggiunge il mondiale. Sfiora l’impresa di passare il girone in cui figuravano Spagna e Portogallo. Il sogno degli ottavi si infrange, tuttavia, su quel tacco di Aspas e quel VAR-check al 92’ di un combattutissimo Marocco – Spagna (2-2).
Così termina, ad oggi, l’ultima avventura africana di Hervé, che ora guida la nazionale saudita, ma che ben presto, farà ritorno alle dorate coste africane, al sole che tramonta arancione dietro solitari baobab e a quella calma e vitalità che un continente così dimenticato ma così vivo sa dare e regalare. Perché se il tuo destino è incrociato con un luogo, quel luogo sarà sempre nei tuoi pensieri e nei tuoi percorsi e ti condurrà inesorabilmente verso il compimento delle tue gesta. Renard è l’allenatore libero che ha deciso di vivere il sogno di allenare a costo di allontanarsi dalla sua terra, che ha sperimentato, è caduto e si è rialzato, che non si è fatto scalfire dalle etichette di “perdente” o allenatore di “seconda fascia”, perché ha sempre dimostrato il suo valore. Se vivi seguendo il cuore e i tuoi sogni non sarai mai un perdente, ecco perché Hervé Renard resta una delle figure più positive di un calcio sempre più soggiogato dalle idee capitaliste, uno dei pochi a restare uomo in mezzo a milioni di maschere.