Hai voglia a parlare di nobiltà della sconfitta. Ci hanno fatto pure un libro, molti anni fa (pubblicato da Guanda, l’autore Ivan Morris narra alcune vicende storiche – nel segno del coraggio, del rischio e della disfatta – che colgono i tratti fondamentali del carattere e della cultura giapponese). Roba da intellettuali, da scrittori. Al massimo da giornalisti in cerca di un bell’articolo di colore. Poi la realtà è fatta di tutt’altra pasta. Anche nel mondo dello sport, che esalta i valori decoubertiniani (l’importante è partecipare) solo alla vigilia delle Olimpiadi. Il giorno dopo la sfilata con le bandiere, è già lotta all’ultimo sangue per primeggiare. Chi vince passa alla storia, chi perde non è più nessuno.
E’ così anche nello sport più popolare del mondo, il calcio. E se in campo c’è un emblema del potenziale perdente, dell’uomo che può salvare l’onore della propria squadra ma se sbaglia è solo davanti all’errore, ebbene quello è il portiere. Come già osservava Umberto Saba nella sua celebre poesia dedicata all’estremo difensore: Il portiere caduto alla difesa/ ultima vana, contro terra cela/ la faccia, a non veder l’amara luce. / Il compagno in ginocchio che l’induce,/ con parole e con mano, a rilevarsi,/ scopre pieni di lacrime i suoi occhi.
E se c’è una figura tragica di portiere passato alla storia solo come un grande perdente, questi non può che essere l’estremo difensore del Brasile sconfitto al Maracanà nel 1950: Barbosa. Di cui in questi giorni ricorrono sia l’anniversario della nascita (27 marzo del 1921) che della morte (31 marzo del 2000). Una data quest’ultima puramente burocratica; perché, come hanno scritto gli immaginifici cronisti sportivi sudamericani, Barbosa era un uomo in realtà già morto cinquant’anni prima.
Moacir Barbosa Nascimento era il numero 1 del grande Brasile e in una frazione di secondo, al 79° minuto della finale dei Mondiali del 1950, davanti ai 200 mila del Maracanà, passò dalla possibile incoronazione a una condanna a vita. La condanna di aver fatto perdere il titolo alla Seleção, causando lutto e disperazione in un intero popolo. «Barbosa, l’uomo che ha fatto piangere il Brasile», titolarono il giorno dopo i giornali carioca. E la sua vita non fu mai più come prima.
Moacir Barbosa Nascimento nasce nel 1921 nello stato di San Paolo, muove i primi passi nel Clube Atletico Ypiranga e nel 1944 viene acquistato dal Vasco da Gama, una delle grandi squadre di Rio, la prima in assoluto ad accogliere atleti di colore. E Barbosa è negro, il primo portiere negro della nazionale verdeoro. Con il Vasco fa incetta di titoli dello stato di Rio (1947, 1949, 1950, 1952 e 1958), nel ’48 vince anche la Coppa dei Campioni del Sudamerica, battendo il River Plate e la Coppa America con la nazionale, nel 1949. Ai Mondiali del 1950, organizzati dal Brasile, Barbosa ha 29 anni ed è nel pieno della forma fisica e mentale: è coraggioso, dotato di senso della posizione ed è molto abile nel parare i rigori.
Nella Seleção non militano ancora gli straordinari assi che trionferanno in Svezia otto anni più tardi, da Pelè a Garrincha, ma è comunque la squadra più forte del torneo. I verdeoro arrivano senza troppa difficoltà all’ultima partita del triangolare finale, il 16 luglio, contro l’Uruguay, sostenuta da 200 mila spettatori impazziti di gioia. Racconteranno gli uruguagi, sfavoritissimi, che i loro dirigenti gli chiesero solo di perdere con onore. Grazie ai regolamenti dell’epoca, al Brasile per affermarsi bastava anche un pareggio.
Il primo tempo finisce zero a zero, ma all’inizio del secondo Friaça perfora la difesa della “Celeste” e porta in vantaggio i padroni di casa. Il Maracanà esplode, partono i primi fuochi artificiali e il pubblico già intona i cori di vittoria. Ma gli uruguagi sono gente tosta, forgiata in cento battaglie sui peggiori campi del Sudamerica. Sorretti dal grande carisma del capitano Obdulio Varela tengono duro e a 25 minuti dalla fine pareggiano con un gol di Schiaffino, attaccante che poi giocherà in Italia, nel Milan.
I brasiliani, invece, hanno i nervi a fior di pelle. Pensavano di aver già vinto e devono cominciare da capo, il loro credo calcistico non contempla la possibilità di pareggiare davanti al proprio pubblico. Attaccano in modo disordinato, senza mai creare grossi pericoli alla porta uruguaiana. Barbosa assiste da lontano alla sconsiderata offensiva dei suoi compagni, solo, tra i pali della sua porta. Al 79° minuto accade l’impensabile: un rapido contropiede della “Celeste” manda in fuga sulla destra la piccola ala Alcides Ghiggia, un tipo rapido e nervoso con innato fiuto del gol. Ghiggia si allarga, va verso la linea di fondo e sembra voler crossare al centro in cerca di un compagno in posizione migliore. Ma a un certo punto, vedendo Barbosa pronto a uscire, decide di tirare fra palo e portiere. E fa gol.
Il Maracanà diventa di ghiaccio. Nel silenzio totale dei 200 mila si sentono persino le grida di giubilo dei giocatori uruguaiani, che capiscono di essere vicini all’impresa. Ancor oggi in Brasile si definisce “Maracanaço” un disastro irreparabile. Negli ultimi dieci minuti la Seleção è sotto choc e l’Uruguay passeggia in campo, fino al 90°. Un’intera nazione piange e si dispera, si parlerà anche di alcuni suicidi. E tutti danno la colpa a Barbosa, che diventa il capro espiatorio dello psicodramma collettivo. «Ho sentito subito gli occhi di tutto lo stadio su di me», racconterà il portiere in un’intervista.
I cinquant’anni vissuti dopo quella partita, per Barbosa sono un calvario. Si sparge la voce che abbia lasciato passare la palla apposta, per strada la gente lo addita come un appestato, molti amici lo abbandonano. Continua a giocare nel Vasco da Gama, ma ovunque vada riceve insulti dai tifosi avversari. E’ anche sfortunato: nel 1953 si frattura una gamba nel derby con il Botafogo e non tornerà più quello di prima. Cade in depressione, solo i tifosi del Vasco gli sono vicini; ma alla fine perde il posto in nazionale e conclude la carriera in club minori. Lasciato il calcio, Moacir Barbosa vive quasi in povertà: negli anni Cinquanta in Brasile non si diventava ricchi con il fùtebol…
Prima lavora come custode di una piscina, poi tira avanti con una piccola pensione, nella casa di una cognata. Ma quello che più lo ferisce è il disprezzo del Brasile intero. Per tutti Barbosa è solo «Quello che ci ha fatto perdere il Mondiale». Anni dopo, una donna lo riconosce in un supermercato, lo addita al figlio e lo insulta. Nel ‘93 il vecchio portiere vorrebbe andare a salutare la nazionale, che sta preparando una partita di qualificazione ai mondiali, ma in ritiro non lo lasciano neanche entrare. «E’ rimasto schiavo di quell’episodio – ha scritto il giornalista Ariel Scher – per tutto il mezzo secolo di vita che è trascorso dall’istante in cui la palla ha toccato la rete, fino all’ora in cui Barbosa ha esalato l’ultimo respiro». «E’ stata la persona più maltrattata di tutta la storia del calcio brasiliano», ha commentato Armando Nogueira, un altro grande giornalista carioca.
«In Brasile la pena massima per il reato di omicidio è trent’anni di carcere – osservò un giorno Barbosa, con amarezza – E sono quasi cinquant’anni che io pago per un crimine che non ho commesso, e di fatto sono imprigionato: la gente dice ancora che sono il colpevole». Al suo funerale, nel 2000, non c’erano più di cinquanta persone: nessun compagno di squadra, nessun dirigente della Nazionale, nessuna autorità cittadina. «Barbosa non si sarebbe sorpreso – ha osservato lo scrittore messicano Juan Villoro – Sapeva che la sua seconda morte sarebbe stata quella definitiva».
Il prossimo anno la Coppa del Mondo ritornerà a calcare il terreno del Maracanà. Non sarebbe male che qualcuno tra i dirigenti della Fifa si ricordasse di Barbosa, l’uomo morto cinquant’anni prima di finire sottoterra, e gli tributasse un doveroso omaggio postumo. Riconoscendo così anche la tragica nobiltà della sconfitta.