«Roma, un giorno tornerò»: è tornato, sì, nell’avventura che forse rappresenta la delusione più cocente nella lunga, frastagliata, contraddittoria, spumeggiante, solipsistica carriera di Zdenek Zeman, l’allenatore che non ha mai vinto nulla di importante nella sua carriera eppure è quello che è. Zeman. Un nome che fa incazzare o sollevare entusiasmi o, ancora, destare inquietudini nella tifoseria che lo deve ospitare. E dunque, quando mister Zeman è diventato – nello onomatopeico slang dei tifosi romanisti, sbeffeggiato dagli avversari –miste Zemma, quest’estate l’altra metà della Capitale, o perlomeno chi scrive, aveva preso paura. Invidiando, diciamo così, quelli che si riversavano nel ritiro giallorosso a omaggiare il ritorno del “Boemo”, la cui carriera s’è forgiata nella Sicilia di tanti anni fa, come antipasto di una squadra costruita per vincere lo scudetto. E “vincere lo scudetto” erano la dichiarazione che non pochi giocatori giallorossi lasciavano scivolare, lasciva come una donna che seduce senza dire troppe parole, nelle loro conferenze stampa. E invece dall’altra parte del Tevere immaginario, sulla riva destra, era arrivato un tecnico semisconosciuto, un bosniaco dall’aspetto elegante e frigido, Vladimir Petkovic. Un signor Nessuno che rendeva ancora più acido e doloroso il paragone tra le panchine di Roma e Lazio. Oggi che il Signor Nessuno viene celebrato come la rivelazione tecnica del campionato, e il Boemo da “re di Roma” in fieri viene cacciato senza troppi complimenti da una dirigenza accusata di “essere laziale” (perché anche questo abbiamo sentito negli insulti volati ultimamente a Trigoria) e una proprietà divisa tra l’anonimato capitolino di Unicredit e i volti lontani degli statunitensi, ci vuol non molto a capire che, in questa Roma che andava in gita negli States a farsi fotografare con i personaggi Disney, e in uno spogliatoio ormai storicamente abituato alle impossibili convivenze tra primedonne, Zeman Zdenek non c’entrava nulla. E così è stato: da salvatore a untore, da promesso sposo a ripudiato.
Qualcuno dirà: non c’entrava nulla perché il suo 4-3-3 (scusate se rubo un paio di righe agli specialisti) è ormai datato nel calcio postmdoerno. No: non c’entrava nulla, dico io, perché, al di là della sua storica battaglia antidoping, Zeman è un altro dei simboli di un calcio che non sta scomparendo: è morto e sepolto. Per cui, al di là del sorriso che ogni goffaggine televisiva sa strappare, ci ha intenerito vederlo pronunciare quel daje come una starlette qualsiasi con gli scarpini da erba. Per cui abbiamo sempre pensato che non fosse il suo posto, quello, in una squadra che da anni esibisce come merce pregiata uno smodato culto dell’individualismo, che contagia ogni aspirante campione che arriva alla Roma. No, Zeman non doveva stare lì. E non lo dico da tifoso, non rimpiangendo neppure un attimo le sue stagioni alla Lazio, finite nella Caporetto di Tenerife che ancora brucia peggio di dieci derby persi. Lo dico da amante di un’estetica del calcio che la caressizzazione televisiva, lo smembramento dei calendari, l’occhio indiscreto delle telecamere che viviseziona la vita dei calciatori, gli stessi ragazzetti mercenari che guadagnano milioni e manco fanno più gruppo (giusta valutazione di Mario Sconcerti) perché assuefatti al mondo di tablet e iPad, al pari dei loro coetanei, lo spopolamento degli stadi , insomma lo dico da amante di un’estetica del calcio che è sepolta. Morta non so, ma sicuramente sepolta dalla peggiore delle mediatizzazioni (quella che, udite questo uccello del malaugurio, ucciderà anche lo spirito originario del rugby a breve), qusto sì. E come Zeman poteva pretendere che il suo calcio sacrificato e impersonale, che immagina la squadra come una falange collettiva dove il calciatore è componente di un sistema, trovasse posto nella più individualista delle compagini italiane? Come poteva pensare che la sua onorabile fissazione per il lancio dei giovani potesse ammansire l’istinto del tutto-e-subito che dalle parti di Trigoria ammazza gli allenatori a velocità supersonica? Suvvia.
Zdenek, ti sei liberato di un peso. Sappiamo tutti che, quando pochi giorni hai detto «resterò alla Roma per altri cinque anni» intendevi dire a Roma, cioè nella Capitale. I codini, le magliette sbruffoncelle, i gladiatori tatuati, i capitanfuturi non fanno parte della tua visione del mondo, che è scaloni, sacrificio, testuggine e testardaggine sul campo, velocità di corsa e non di lingua nel postpartita, abnegazione a un modello di gioco che è l’ultimo scampolo di collettivismo rimasto in Italia dopo la morte della sinistra storica. Chi ha l’età giusta ricorda la tua Età dell’oro, nella Foggia dei miracoli. Ricorda, e ritrova, le fantasmagoriche odi di Antonio Albanese nel personaggio di Frengo e Stop. Lui ti chiedeva: «Zemman, mi sendi? Io ti sendo!» Anche noi ti sentiamo, Zdenek, nel momento in cui si rende l’onore a un soldato del calcio che non c’è più. Il contrario di quelli che fino a un mese prima ti adoravano e poi il vitello d’oro l’hanno fuso negli improperi.