Profeta del calcio costruito sul possesso palla e sulla zona, Nils Liedholm aveva qualità rare nell’universo pallonaro italiano: era un campione di stile e di buon umore. Svedese di Valdemarsvik avrebbe adesso novant’anni (era nato l’8 ottobre del 1922, è scomparso nel 2007) era soprannominato “il Barone” per l’eleganza ma sia da calciatore (mai ammonito in carriera) che in panchina aveva espresso valori tecnici indiscutibili, costellando la carriera di successi: oro olimpico con la Nazionale nel 1948, quattro scudetti con il Milan negli anni ’50, argento nei campionati del Mondo del 1958 (era capitano, fu sconfitto dal Brasile di Pelè); fu l’allenatore della stella dei rossoneri nel 1979 e del secondo scudetto della Roma, nel 1983. Gli mancò solo la Coppa Campioni, sfilata dal Liverpool ai giallorossi dagli undici metri. Un suo ritratto campeggiava nel 1960 sul primo album di figurine edito dalla Panini, mentre nel film “L’allenatore nel pallone” Lino Banfi, alias Oronzo Canà, ne portava sempre un foto con sé per devozione.
Fu un centrocampista che sapeva accarezzare la palla, ma anche da libero impressionava per visione globale. Visse la straordinaria stagione del Gre-No-Li, formando un insuperabile trio con i connazionali Gunnar Gren e Gunnar Nordhal. Giocò anche una stagione con Gianni Rivera che lo ricorda così: “La sua cultura sportiva si basava sul concetto di fondo che un calciatore doveva essere professionista per scelta e non per obbligo. Certo, quando capiva che qualcuno andava un po’ troppo sopra le righe o remava contro, sapeva come richiamarlo alle sue responsabilità. Ma lo faceva senza quell’impeto aggressivo e autoritario che a quei tempi era comune un po’ a tutti gli allenatori, senza alzare mai la voce. Inoltre aveva la straordinaria capacità di far svolgere gli allenamenti facendo in modo che la partita della domenica successiva potesse essere impostata in maniera tale che i movimenti fossero automatici, quasi naturali”.
Amava i giocatori che avevano le sue stesse caratteristiche, si rivedeva in Agostino Di Bartolomei, capitano della Roma scudettata. Le sue squadre, nella patria del “prima non prenderle”, dovevano invece avere un chiaro spartito di gioco, nel quale tutti partecipavano alla manovra, i terzini avevano libertà di scendere sulla fascia e i mediani non erano relegati al ruolo di rubapalloni. Come filosofia aveva alcuni punti di contatto con il “tic-tac” del Barça stellare di Pep Guardiola, perché la ragnatela di passaggi che imponeva per affermare il possesso palla erano insieme la dimostrazione della qualità dei singoli e il risultato di una sintesi corale. Postulò un credo che era l’antitesi del difensivismo: “Ma non si deve criticare solo il catenaccio. Ci si difende anche a centrocampo, con mille falli tattici. Io – affermò in una intervista alla Gazzetta dello Sport – ripetevo ai miei giocatori: se fai fallo sbagli due volte. La palla resta a loro e mandi un messaggio di debolezza”.
Per Gigi Garanzini in Liedholm “miracolosamente convivevano un grande rigore professionale, uno humour alla Buster Keaton, ma anche una stretta osservanza alle cabale più strampalate”. Memorabili gli appellativi che riservava ai calciatori, pronunciati in un italiano traballante: “Scarnecchia è come Eder”; La Roma è Falcao Valigi e altri nove”, Strukelj è più forte jogadore di mondo”. Imperdibili i detti iperbolici: “Si gioca meglio in dieci contro undici”; “Il possesso palla è fondamentale: se tieni il pallone per 90 minuti, sei sicuro che l’avversario non segnerà mai un gol”; “La partita perfetta è quella che finisce zero a zero”. Terminata la carriera da allenatore fu consulente di Franco Sensi, a cui suggerì invano l’acquisto di un certo Zlatan: “Ero a Norrkoping – raccontò – con mio figlio. Volevamo andare a vedere Ibrahimovic che giocava in B. Ne parlavano un gran bene, ci fermò un contrattempo. Il giorno dopo leggemmo che aveva sputato agli avversari. Era il capo di una banda di strada a Malmoe”. Lidas era più scaramantico di un napoletano, aveva un mago di fiducia, seguiva l’oroscopo ed era convinto che i grandi calciatori fossero del suo stesso segno, la Bilancia, e citava come esempi Falcao, Maradona e Pelè. Trascorse gli ultimi anni di vita dedicandosi ai vitigni di famiglia sulle colline del Monferrato, dove produceva Barbera e Grignolino.
La scomparsa del “Barone” unì nel cordoglio il milanista Silvio Berlusconi (“un signore”) e il romanista Massimo D’Alema (ne elogiò la “forte dimensione umana”) ma lasciò il calcio italiano orfano della sua classe e leggerezza.
* dal Secolo d’Italia del 21 ottobre 2012