Per Claudio Garella, Noblesse oblige imporrebbe di iniziare con la frase che a lui dedicò Gianni Agnelli: “Il più grande portiere del mondo, senza mani”. Giustizia, invece, impone di farlo citando il suo commento alla clamorosa parata in rovesciata che, ai tempi dell’Udinese, negò la gioia del gol (su punizione) al “baffone” cremonese Enrico Piccioni.
“L’ho colpita in una maniera che non sapevo come la colpivo, però è andata bene. C’è anche un pizzico di fortuna, è chiaro. Torno a ripetere: questo estro qua non ce l’hanno tutti, ce l’ho io”.
Claudio Garella è stato un portiere atipico che faceva a pugni con la tradizione italiana, attaccatissima – ancora – alla compostezza dell’estremo difensore fasciato tutto di nero. Il suo apprendistato calcistico lo ha fatto a Torino, imparando e ispirandosi a un portiere volante per eccellenza, Luciano Castellini. Il “giaguaro” fu uno dei grandissimi innovatori del ruolo. Non per caso era il portiere del Torino olandese (e scudettato) di Gigi Radice. Introdusse lui i guanti, per esempio. E le divise sgargianti.
In Italia ci fu un grande dibattito anche su queste. Quando si uscì dall’obbligo della cravatta scura, i portieri si sbizzarrirono. Ma, pure, si divisero in due scuole di pensiero. Che poi rifletterono quelle d’interpretazione del ruolo. Su tutti, capiscuola, Dino Zoff e Ricky Albertosi. Zoff, in grigio: pacato, chirurgico, estremamente dedito al lavoro, poco spettacolo e tanta sostanza. Freddo. Albertosi in giallo: estroverso, guascone, spettacolarissimo, esteta e spericolato. Caldo, anzi: bollente.
Garella, nessuno se ne accorse, li fuse: l’esuberanza dei “portieri volanti” e il pragmatismo dei “freddi”, disposti (come Zoff) a utilizzare tutto il corpo per parare, a dispetto di chi – leggi Lido Vieri – pur di usare solo le mani era capace di farsi male giocando.
Detta così, parrebbe l’epifania di una nuova stirpe di portieri. Lui capostipite di una genìa di pipelet imbattibili e divertenti. Invece no, Claudio Garella dovette faticare per trovare la sua consacrazione perché l’estro, che lui aveva e gli altri no, talora gli ha giocato qualche brutto tiro.
L’occasione della vita, per esempio. Quando, a poco più di vent’anni, è titolare nella Lazio. Ma basta qualche incertezza per storpiarne (subito) il nome. Garella diventa Paperella, a fine campionato la società lo cede e il dirigente Franco Janich gli dice chiaro e tondo che a Roma, ormai, non può più restare. Lui deve accettare la realtà, farlo però non vuol dire dichiararsi vinti: “Io tornerò in Serie A”. E lo farà da eroe, a Verona e a Napoli. Due scudetti, incredibili per opposte ragioni. Il primo nell’1984-85 quando portò il tricolore in provincia, per la prima volta nella storia del calcio italiano del dopoguerra. Mai aveva trionfato una squadra che non fosse espressione (almeno) di un capoluogo di regione. L’Hellas di Osvaldo Bagnoli ci riuscì e fissò un primato che, oggi ancora, è imbattuto. Dato l’andazzo che ha pigliato il pallone, lo rimarrà per un bel po’.
A Napoli, lo scudetto dell’87 fu il sollievo e il trionfo tanto vagheggiato e tanto atteso. Una città intera impazzì, per la prima volta gli azzurri gliela avevano fatta vedere agli squadroni del Nord, avevano battuto il Palazzo e grazie a Maradona e soci erano riusciti nella più grande impresa calcistica del secolo. Sì, i termini furono questi: perché non è stato mica Sarri e nemmeno il sarrismo a parlare di contrapposizione nord/sud nel calcio e neanche a teorizzare il ribaltamento di un “sistema” a fortissima trazione piemontese e lombardo. Addirittura, tanto era forte la tensione emotiva e sportiva, Napoli gioì con la Roma giallorossa capace di estorcere, con Falcao, lo scudetto alla Juventus. Qualcuno si sbizzarrì persino dipingendo quadri e vignette, gelosamente custodite da privati. Che poco le mostrano in giro perché intanto (ah, Bagni!) l’amicizia tra il Ciuccio e i Lupacchiotti è degenerata.
Garella, ormai s’era lasciato alle spalle il poco lusinghiero “Paperella” ed era diventato Garellik. Anche se, di tanto in tanto, non mancava qualche amnesia. Le “garellate”, che negli anni ’80 entrarono nel lessico sportivo di tutti gli italiani.
Dicono che a Napoli lo volle Maradona. Perché gli piaceva il suo stile, Clforse. Di sicuro non preoccupava il diesse azzurro del tempo, Italo Allodi, che ricordò al portiere che era pagato per parare, non importa come, se con o senza le mani.
Già, perché Garella era reputato antiestetico. Era alto e sgraziato, scrissero in tanti. Vladimiro Caminiti lo paragonò persino a un salsicciotto. Ma nel novembre del 1983, sulle colonne del Guerin Sportivo, lo inserì tra i portieri più promettenti in un inchiesta sul futuro del ruolo ai tempi dell’immediato dopo Zoff, insieme a Giulio Terraneo (ai tempi al Torino), al romanista Franco Tancredi, a Giovanni Galli (titolare della Fiorentina) e all’interista Ivano Bordon.
“Dico Garella – scrisse Caminiti – per significare il portiere, se vogliamo, più brutto in senso estetico del nostro calcio, magro di gamba e grosso di torace, sembra un salsicciotto mi scappò di scrivere qualche mese fa, ma intanto Garella ha parato il parabile e spesso anche l’imparabile”. E ancora: “Il suo stile non somiglia a quello degli uccelli e il suo volo ricorda piuttosto la caduta della cassapanca antica o del grande armadio. Ma contano i risultati. Garella ha senso del piazzamento, uscita alare, buona presa. E poi questo carattere di ferro, questo ottimismo poco turineis, che ne fa un portiere buono per tutte le stagioni”.
Uno così, capace di salvarsi smanacciando, di uscire in tackle scivolato sugli avversari lanciati alla trequarti, si parare utilizzando ogni parte del suo corpo doveva, per forza, avere una grande personalità. Forse la pagò, proprio a Napoli.
Accadde all’indomani della sconfitta al San Paolo che consegnò al Milan degli olandesi e di Arrigo Sacchi lo scudetto, proprio a discapito del Napoli che aveva dilapidato un vantaggio mostruoso nei confronti dei rossoneri. Quel 3-2, per lunghi anni e forse ancora oggi, rappresenta una ferita aperta. Che ha dato la stura e mille illazioni, decine di accuse sommerse, una sorta di “complottismo” che pretende di vedere in quella disfatta la mano della camorra che, altrimenti, si sarebbe dissanguata a pagare gli scommettitori (clandestini) che avevano puntato fortissimo sul secondo scudetto azzurro.
Dal punto di vista suo, Garella ha sempre smentito queste ricostruzioni. Ma ciò non vuol dire che la squadra ne uscisse benissimo da quella sconfitta. Nel maggio del 1988, capitanò la rivolta dei calciatori contro l’allenatore Ottavio Bianchi. Lui, Bruno Giordano, Salvatore Bagni e Moreno Ferrario furono individuati quali “agitatori” della fronda però la squadra era unita. Garella lesse il foglietto “pieno di cancellature” (riportò Repubblica) in cui i giocatori del Napoli proclamavano, pubblicamente, la sfiducia al tecnico.
Cosa accadde poi, dal suo punto di vista, lo spiegò Luciano Moggi che ai tempi era direttore sportivo della squadra. Nel libro “Il pallone lo porto io”, l’ex dirigente ha spiegato:
“Il presidente Ferlaino voleva licenziare l’allenatore ma io non ero d’accordo perché, se l’avessimo data vinta ai giocatori, sarebbe finita che poi uno si alzava al mattino e si inventava chissà quale cosa da imporre alla società. Riuscii a convincere il presidente a tenere l’allenatore”.
Moggi ha aggiunto una nota di colore alla vicenda: “Mi viene da sorridere a pensare a Nando de Napoli a cui venne dato il compito dai compagni di leggere il comunicato in televisione. Fu esilarante perché disse testualmente: ‘Noi giocatori, virgola…”.
L’epilogo è di facile intuizione. Claudio Garella viene ceduto all’Udinese. Ha in cuore due rimpianti: il non aver lasciato Napoli con un altro scudetto e quel gol di Butragueno al San Paolo che ha troncato le gambe a una rimonta che, altrimenti, avrebbe regalato ai tifosi napoletani una serata memorabile, in Coppa Campioni, al cospetto del grandioso Real Madrid.
In Friuli, Garella è titolare e riesce a guidare la squadra alla promozione. A quella stagione, 1988-89, risale un video che è (oggi) tra i più cliccati di quelli che lo riguardano. È la parata in rovesciata, quando con la gamba di richiamo, disinnesca la punizione della Cremonese calciata da Enrico Piccioni. Nella stessa gara, poi finita 1-1, aveva anche parato un rigore. Fu un modo di farsi perdonare, dai tifosi udinesi davanti a cui s’era esibito, ai tempi di Verona, con un’altra delle sue: la parata di culo. Non inteso come fortuna, ma proprio con il fondoschiena.
A Udine rimane anche l’anno dopo, quando i friulani – nonostante un giovanissimo Abel Balbo – retrocedono per un solo punto e con la difesa più perforata del campionato: cinquantuno gol al passivo. Beffa delle beffe: il Napoli, proprio quell’anno, ha vinto il suo secondo (e finora ultimo) scudetto. Così è sostanzialmente finita la carriera di Garella che, la stagione 1990-91, passa all’Avellino. Ma un infortunio lo costringe a non scendere in campo che per due volte. Ha continuato a occuparsi ancora di pallone, ma nelle serie minori. Nessuno, diceva, l’ha più cercato. Oggi, che se n’è andato, tutti lo ricordano.
Articolo interessante, molto documentato su Claudio Garella, il portiere per certi versi unico, pure stilisticamente, che parava, non solo con le mani, ma con l’intero corpo.