Il 23 ottobre del 1956 il popolo ungherese insorse contro i corrotti capi e funzionari comunisti e contro il dominio sovietico che avevano portato la nazione magiara al collasso economico e a una vita molto difficile. La rivolta fu l’esito di un clima di dittatura, di ritmi di lavoro che aumentavano di mese in mese a fronte di salari insufficienti. La miseria si diffondeva e con essa la disperazione e la delusione per chi aveva creduto che il socialismo avrebbe portato la prosperità, il benessere e la libertà. Inoltre, l’imposizione di modelli di vita e politici stranieri era mal sopportato.
Lo storico David Irving effettuò una ricerca sulla rivolta ungherese che uscì in Gran Bretagna nel 1981, venticinque anni dopo la rivolta. L’opinione pubblica occidentale aveva liquidato quell’episodio importante come un problema interno al mondo comunista, con i media che avevano spesso sminuito la sua importanza. Nello spazio di pochi anni, cambiarono gli equilibri nell’impero sovietico e anche i rapporti fra le superpotenze mutavano. La glasnost, la perestrojka, le riforme, misero in luce il ruolo repressivo che il comunismo aveva avuto contro il popolo grazie allo stato di polizia instaurato dal partito socialista operaio ungherese.
Nel libro Irving afferma che non si trattò di una rivoluzione, come alcuni sottolinearono, ma di un’insurrezione del popolo contro il regime odiato, un’insurrezione spontanea, che aveva come scopo soltanto la libertà, come avevano fatto gli operai tedeschi nella Germania Est nel 1953 contro il governo comunista della Repubblica democratica tedesca. Anche quest’ultima era una rivendicazione popolare contro il comunismo e le condizioni di vita imposte con il conseguente intervento dell’esercito sovietico.
Irving racconta che Janos Kadar, segretario del partito socialista operaio ungherese, appoggiò dapprima la rivolta, sostanzialmente antisovietica, guidò i primi momenti della sommossa, ma poi, per ossequio a Mosca, definì la rivolta “una controrivoluzione” e avviò la tremenda repressione sollecitando l’intervento delle truppe sovietiche. Dopo scontri di piazza, sparatorie, assalti del popolo contro i soldati sovietici (ne morirono circa 700) e contro le sedi del Partico socialista operaio ungherese, si impose la “normalizzazione” che fino al 1958 proseguì con repressioni ed esecuzioni dei “nemici del proletariato”, compresa quella del premier Imre Nagy. Gli ungheresi, intanto, avevano compreso che il potere era in mano ai sovietici e che i paesi occidentali non si sarebbero occupati di loro, secondo le logiche spartitorie di Yalta . Una “normalizzazione” che spazzò via il 25 per cento dei vertici del partito. Ma dal 1963 al 1970 fu avviato un processo di laissez faire, che manteneva il paese ben saldo nelle mani dei vertici del partito lasciando limitati spazi di agibilità al popolo.
Al termine della rivolta, il 7 novembre 1956, circa 200mila ungheresi fuggirono in Occidente; 80mila era morti, 100mila i feriti. Moltissimi rivoltosi fuggiti a Ovest furono interrogati dai servizi Usa: venne fuori un quadro drammatico delle condizioni di vita in Ungheria. Le testimonianze orali furono registrate e trascritte. Irving ha potuto consultare quelle diverse migliaia di pagine traendone un libro di storia rilevante che ebbe pesanti riflessi nella storia della sinistra nel mondo.
*David Irving, Una nazione in rivolta. La rivoluzione ungherese del 1956, Italia storica ed.-2017; pagg. 368 – euro 36