…e c’è anche Cristina Campo. Anche. Ecco, è questo ‘anche’ la nota stonata. Cristina Campo non c’è ‘anche’. Cristina Campo è un’atomica che scoppia nel Novecento che sta stancamente smettendo di fare filosofia. Cristina Campo è tutti i superlativi che un pensiero fatto scrittura si possa meritare. È, anzi, un superlativo vivente, con la sua bellezza di donna magnifica, finissima. Probabilmente c’entra anche tutta quella bellezza ricevuta in sorte nell’equazione che ci dà i suoi scritti. Dice Fra Girolamo, il padre della grafologia: “Il vero genio nativamente equilibrato – quantunque non sia facile trovare questo equilibrio innato nel genio! – ha lineamenti somatici di una bellezza che direi insuperabile.”
Cristina Campo è dunque quel genio – e ovviamente è stata proscritta, bandita nel silenzio. “Imperdonabile” per quei saltimbanchi della comunicazione letteraria, del ruminare pseudofilosofico che hanno incubato l’Italia di oggi. Infatti, se la scopri, è per caso, perché un’intelligenza con il gusto della clandestinità te la raccomanda; non certo sulle pagine di un’antologia. E scopri il reame della bellezza, la maraviglia che riempie un intero verso del notaio Giacomo da Lentini e basta tutta, e rende il resto (ogni resto: la poesia, ma la vita stessa, quando è un resto) prescindibile. “Maravigliosamente”: slargarsi del cuore, varco per la coniunctio capitale, quella con il destino, con la verità.
Di questo si occupa e solo di questo Cristina Campo. Del meraviglioso. Del destino. Del mistero che se ne accompagna e va difeso come un’ostia. Della bellezza. Bellezza di corpi e anime, di pienezze ed elusioni, di affermazioni e negazioni. Contro ogni facile manicheismo, per l’unico manicheismo vero: tra sopra e sotto, tra grande e meschino. Anche lei spericolata come il Nietzsche ‘morale’, che chiude la più equivoca e abusata delle questioni – bene o male – in: sopra o sotto, grande o meschino. E consegna ai ‘signori’ un testimone non da poco da portare in giro per il mondo: appunto la maraviglia.
Il resto è febbre, perché il “testo implicito”, la verità delle verità che chi sa leggere nell’umano decifra, è di una grandezza straziante. Dice il mistico sufi: “È un fuoco questo suono del flauto. Sono come morti coloro che non odono questo fuoco del flauto.” È la febbre che Bernini indovina sotto i suoi panneggi infiniti. È la febbre che viene agli usignoli quando cantano. E noi, portati dall’insulsa marea, siamo arrivati da anni, grazie alla premiata ditta Feltrinelli, al “coraggio del pettirosso”, dimenticando il coraggio dell’usignolo e quello che significa…
Ce lo ricorda ogni riga delle poche che ha voluto scrivere Cristina Campo. Infatti ritroviamo tra le sue pagine tutti i canoni di un pensare non mondano: l’orrore per il meticciato, il rispetto per la razza, addirittura l’espressione omerica “uomo di buon sangue”. Troviamo l’amore per lo stile, il domandarsi lungamente “che cos’è aristocratico?”, che cos’è “perfezione”? Troviamo il maestro di spada giapponese che “non distingue tra la morte sua e quella dell’avversario”, e quindi tutt’intero il Bushido. Troviamo questo tremendo anatema politico: “Chiudete pure gli occhi: diventerete ciechi.” Troviamo la charis, la grazia ellenica, dappertutto. Troviamo “violenza e dolcezza, lentezza e rapidità, imprevisto e inevitabile, radicamento e leggerezza.” “Tempo e segreto.” Troviamo un’indulgenza irresistibile verso il peccato di nazismo di Gottfried Benn.
Sopra o sotto, appunto; non bianco o nero.
La sua febbre, la sua “grande passione”, per tornare a Nietzsche, si nutre dell’incenso liturgico, si esalta negli ori del rito, ma sa riconoscere in quella lotta contro l’individualismo che è la sprezzatura, nella povertà scelta come liberazione dai legacci mondani, altrettanta maestà.
E dove si stempera – o dilaga – questa febbre? Nell’amore divino.
Di solito ai saggi noi chiediamo una soluzione dei mille enigmi che ci parano di fronte, ma pochi tra loro ce la danno. Cristina Campo non è di questo gregge di reticenti. Alla maraviglia lei dà un nome ed è quello del suo Dio. “Dove seppellirò l’oro che porto?” – domanda lo scettico Montale. La risposta di Cristina Campo è: in Dio. Tanto era l’oro, che non si poteva accontentare di niente di meno.