Le antologie del Novecento la schivano e non la citano. Antonia Pozzi, baleno poetante. E dire che la follia di ieri di Amelia Rosselli e quella di oggi di Alda Merini sono discretamente rappresentate, che ci si trova pure l’amaro e inclassificabile Renato Serra e lo scabro Jahier di Con me, con gli alpini. Che c’è Jovine, anche se costretto a lasciar sciogliere nella propria officina letteraria il silenzio della neve su Calena. C’è Vittorio Sereni, che di Antonia era amico e scrisse un mare di versi tra i quali gli imperdibili sono pochini. C’è Montale, che ne riconobbe ed elogiò la grazia (però Montale c’è per sbaglio…). D’altronde, l’italianista Maria Corti fa capire che la giovane Antonia aveva una tendenza all’esasperazione. Non fu mai ‘ragionevole’, come non fu simile a nessuno e ordinaria in nulla. A diciassette anni non giocava ai sottintesi languorosi insieme a un ragazzo con un brillante passato (com’era considerato il suo, figlia di un importante avvocato milanese e di una contessa erudita e melomane) da proiettare in un brillante futuro. A diciassette anni era già compiutamente poetessa, amava già da un anno senza trucchi, voglio dire vesti, ricambiata, il proprio professore di latino e greco del liceo, e scriveva cose imperdonabili.
Amore di lontananza
Ricordo che, quand’ero nella casa
della mia mamma, in mezzo alla pianura,
avevo una finestra che guardava
sui prati; in fondo, l’argine boscoso
nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo,
c’era una striscia scura di colline.
Io allora non avevo visto il mare
che una sol volta, ma ne conservavo
un’aspra nostalgia da innamorata.
Verso sera fissavo l’orizzonte;
socchiudevo un po’ gli occhi; accarezzavo
i contorni e i colori tra le ciglia:
e la striscia dei colli si spianava,
tremula, azzurra: a me pareva il mare
e mi piaceva più del mare vero.
(Milano, 24 aprile 1929)
Non è maniera, non è uno sfogo: è un cristallo. Così sarà sempre la sua poesia, coltivata tra le vette, nella torre d’avorio e broccato della villa di famiglia a Pasturo, sotto le Grigne, dove le montagne dicono, al suo orecchio, “l’infinita speranza di un ritorno.”
“Amore di lontananza”, “l’infinita speranza di un ritorno”, aggiungiamoci il titolo nietzschianissimo “Amor fati” e già si coglie lo scandalo della poetica di Antonia Pozzi – che non è crepuscolare, perché non è patetica, ma appassionata; né ermetica, perché lei ha il dono della certezza, della parola limpida; che non indulge a strepiti e pompe di sapore dannunziano, o a singulti ungarettiani; che non si dà a razzolare nei pollai metaforici di Saba – e quindi, va da sé, nelle antologie non si sa come presentarla, a che punto introdurla (tra i lacerbiani, Michelstaedter e Montale e, subito dopo, accanto a una pagina sui tappeti persiani di Cristina Campo, senza dimenticare Fernanda Romagnoli e il suo “e più saliamo e più la cima vola” e magari l’Evola dada di “lontani mondi…”? Il fil rouge non è poi così implicito…). E non possiamo neanche osarlo, l’aggettivo più rischioso: ‘aristocratico’, per definire questo cosmo, così puro, così arduo, dato che c’è l’equivoco del sangue e sembrerebbe un’allusione alla discendenza dalla contessa melomane.
Il mondo di Antonia è lo ieri splendente, radioso, non il domani insolente, millantatore, bugiardo. È l’oggi venturoso (Emilio Comici, cui sono intitolate due poesie), sapiente, antiborghese. È l’“infinita speranza di un ritorno”.
Sulla tensione al bello e al buono, dice Antonia:
“Di fronte a una dottrina estetica che, con l’assoluta preponderanza data all’elaborazione stilistica, sembra sfiorare in pratica il rischio del geroglifico e del tecnicismo, mi sono chiesta: che cosa fa sì che l’opera d’arte ci dia, oltre l’emozione della sua bellezza, tanta profonda commozione umana? Che cosa crea all’interno dell’opera stessa, quell’incessante tensione trattenuta che la colloca come in un’atmosfera vibrata di vetta, di spigolo, dove ogni passo è una conquista esatta e la fatica si rastrema in levità attenta, come per un gioco mortale? È che qui tutto è impegnato, e la stesura di una pagina non implica soltanto la risoluzione di un problema letterario, ma rappresenta di per sé stessa la risoluzione vivente di un problema di vita.”
Dice ancora, Antonia, e dovremmo arrossirne, noi postumi, che le Arianne (e le Antonie) amiamo dimenticarle e continuare ad aggrovigliarci nel possibile:
“Oggi tutto vuol essere mobile, convertibile, aperto; siamo come in una matassa di fili sciolti intersecantisi che vanno, certamente, verso una meta compatta, un gomitolo solo, ma nessuno può e vuole vedere dove esso sia.”
Antonia Pozzi ha sempre voluto e saputo vedere quel punto, quel punto, caro a Dante, caro a Leopardi come pietra angolare della poesia, caro ai sapienti come destino da offrire a chi sia degno di accedere a un destino. Un punto: “ein Ziel”, una meta – reclama per ‘i pochissimi’ della sua razza Nietzsche, il più temerario e puntuale tra i filosofi. Fosse anche solo rimpianto, fosse anche solo ricordo, fosse anche solo pietà (“pietà di sé, infinita pena e angoscia…” mormora il Montale bandito dalle antologie), purché sembri miracolo anche se è semplice norma. Sia pure un amore carnale, una passione, una pagina di epistolario, i paesaggi altoatesini (dove fiori umani – quelli dei prati – e fiori aumani – le nude rocce dolomitiche –, corteggiano il viandante).
Antonia Pozzi parlava spesso del bene. Per lei era quanto di più classico si potesse concepire: la charis ellenica. Non l’elemosina, ma la comprensione, che sboccia trionfalmente nell’eroismo del sentire. Antonia era per il canone e non per il capriccio, per la virtus classica, non per l’ambizione, per le molte verità che serpeggiano nel guazzabuglio dei casi (e hanno bisogno di anime ospitali per comunicarsi) e non per le opinioni, per le vette e non per i salotti, per la grazia, l’amore totale, coraggioso, consapevole, rispettoso. E dato che tutto ciò moriva, moriva a precipizio nella modernità distratta, volle morire anche lei, a ventisei anni. Ingoiò il “dolore che spumeggia”, ingerì un fiotto di barbiturici e raggiunse in bicicletta un prato sotto il cielo di Milano. L’ultima foto-ricordo la ritrae lì: una ragazza giovanissima distesa nell’erba, la bicicletta accanto. La ragazza guarda il cielo e il cielo la riguarda. Una cartolina dall’altrove.
Confidare
Ho tanta fede in te. Mi sembra
che saprei aspettare la tua voce
in silenzio, per secoli
di oscurità.Tu sai tutti i segreti,
come il sole:
potresti far fiorire
i gerani e la zàgara selvaggia
sul fondo delle cave
di pietra, delle prigioni
leggendarie.Ho tanta fede in te. Son quieta
come l’arabo avvolto
nel barracano bianco,
che ascolta Dio maturargli
l’orzo intorno alla casa.8 dicembre 1934
annavalerio@libero.it