“Alcuni dicono che la cosa più bella sulla terra nera sia un esercito di cavalieri, altri di fanti, altri di navi. Io dico…” Io dico il momento in cui il guerrigliero Nicolàs Centenario viene scoperto dai suoi carnefici – e come. Siamo nella tremenda foresta amazzonica. Siamo in Perù. Siamo tra le pagine de La danza immobile, prodigio di Manuel Scorza.
Nicolàs Centenario è il comandante dell’Esercito Rivoluzionario del Perù. Ha deciso che non avrebbe potuto non accollarsi l’impegno di portare sulle sue spalle “l’impressionante sorte di un Continente intero”. È partito da Parigi per liberare i suoi connazionali, drogato di letture di Lenin. Ha rinunciato a Francesca, per Lenin. No: per il Popol Vuh. L’hanno preso gli uomini del capitano Basurco in un’imboscata. Ora vorrebbero lasciarlo calcificarsi sotto il sole atroce, ma Nicolàs scappa, anche se nessuno ci era mai riuscito prima, mentre gli uomini di Basurco ballano estenuanti boleros sudati. Scappa sopra una zattera – e spesso sotto una zattera – nel fiume. Scappa per giorni. Ha con sé il necessario per non svenire. Giorni in cui balla sopra e dentro la corrente. Supera un posto di blocco, l’altro, l’altro ancora. Nessuno c’era mai riuscito. Forse non ci riuscirà neanche lui. La fame è quasi un delirio. Scivolare nel fiume è un po’ come essere ancora con Francesca. Il caldo, il sole, le nenie dell’infanzia. L’ultimo posto di blocco, laggiù, nascosto nel buio. Nicolàs accarezza le acque grigie del fiume, “il possente fianco del fiume”. E all’improvviso incomincia un acquazzone di pochi istanti che lascia il suo corpo bagnato. Freddo e bagnato. Ma ha vinto, ha praticamente vinto. È libero. Il Continente no, ma lui sì, è libero. Le luci dell’ultimo posto di blocco: eccole. Più splendida, però, una luce gli brilla addosso, emana da lui. È qui la pagina indimenticabile.
“Le lucciole, tutte le lucciole, aderiscono alle superfici umide. Infinite lucciole lo scolpiscono d’oro, incrostano d’oro la sua zattera d’oro, con angoscia d’oro vuole scacciare le sue delatrici d’oro, con mani d’oro cerca di scostare il manto d’oro che ricopre il suo corpo d’oro, le lucciole che lo incoronano Nicolàs I, Signore delle Piogge, Re delle Correnti. La zattera si avvicina al posto, pensa di buttarsi in acqua, troppo tardi, le sentinelle scoprono l’imbarcazione rifulgente di Nicolàs I e ultimo, primo e postremo monarca delle lucciole, detronizzato nel momento stesso in cui stava vincendo, fischiano pallottole, ansima il motore di una lancia nelle tenebre, balzano lanterne vicino, le guardie repubblicane lo circondano, un cono di luce gli percorre il viso, è lui, ci sei cascato finalmente, è lui, grandissimo figlio di puttana, è lui!”
Non è la lagna di Pasolini cui siamo abituati noi, imprigionati nella nebbia che ci produciamo da soli. Così soavi, così fragili, così discrete e sfuggenti, così crepuscolari, le lucciole – eppure Scorza le fa brillare più di un salone di Versailles, perché è il corpo di un guerrigliero che stanno ricoprendo, che stanno smaltando della porporina del sogno e dell’incubo, perché tutta quella improvvisa bellezza è alla morte che lo consegna – e che morte! La morte che solo il nemico più feroce delle tue battaglie ti può dare: sbranato dalle termiti, millimetro per millimetro. Aveva sognato l’amore di Francesca, Nicolàs; gli aveva preferito l’amore per tutte le Francesche del Continente che voleva salvare. Forse aveva sognato di ballare con lei, con loro, la sua danza immobile in mezzo a un volo di lucciole, e di approfittare di quel piccolo attimo di discrezione, di buio complice delle lucciole, per baci più profondi. È terribile finire così, come un Re Mida fradicio e raffreddato, in un sogno che è un incubo. Però è terribilmente bello. Come gettarsi alle spalle l’inerzia e arruolarsi volontari a quindici, a sedici anni, ed essere pronti a morire perché gli americani restino lontani di un oceano a costruire grattacieli, e gli inglesi lontani di uno stretto a sorbire cups of tea. Come l’inchino che ci si fa prima del duello. Come la generosità di cui è capace chi sa di aver combattuto la sua battaglia giusta.
Ecco: ancora una volta ci siamo trovati di fronte alla rappresentazione della Bellezza. Ancora una volta ci siamo slanciati verso di lei per abbrancarla e comprenderla, definitivamente, e l’abbiamo sentita sfuggirci tra le dita – per trasformarsi in buio se ci era apparsa come luce, in luce se ci era apparsa come buio. Unico indizio che ci ha lasciato è una sensazione di caldo sui polpastrelli.
annavalerio@libero.it