
Quando ha vinto non ci credevo. Di solito lo Strega se lo portano a casa romanzi da leggere dalla parrucchiera. Invece ha vinto e ha rigettato nella polvere cui apparteneva Acciaio, una storia puttanesca in tutto: dall’inizio, con l’equivoco pedofilo e le due lolite tredicenni desnude, alla fine, con il messaggio sociale che si voleva consegnare al vento (vento che poi spira sempre nei soliti salotti, più che ai margini dei poli industriali e delle mostruose acciaierie). Ha vinto di misura, però ha vinto, Canale Mussolini, il più bel romanzo italiano da decenni a questa parte.
Molto italiano, ma di un’italianità che ha ancora senso; non il patriottismo retorico che rimanda a una patria che non c’è perché non c’è più il suo popolo. In Canale Mussolini il popolo c’è, eccome, reso grande dalla volontà di chi lo guida. E l’energia narrativa che di primo acchito sconcerta (perché, appunto, la mercatura editoriale non ce la imbandiva da decenni) non è poi così sorprendente. Pennacchi è solo narratore di una storia grande. Il suo merito? Contenerla tutta nel cuore e conoscerla fino nelle pieghe più riposte; essersi drogato di nomi, fatti, facce, rughe, sapori, parole, prima di aver messo mano alla tastiera (o alla penna, non so). Troppi si improvvisano scrittori e pochi sanno quanto sia indispensabile alla riuscita di un romanzo documentarsi. Molti pensano di riempire i vuoti con lo stile, l’arzigogolo – e strappano carta a sproposito alla vita vegetale. Poi viene la maledetta ideologia – e quella porta con sé l’infatuazione per i personaggi nevrotici, i balordi, gli sfigati-ma-geniali, i malati di ogni male, i cattivi perversi, i gay, le lesbiche, i mezzi e mezzi (categoria, in effetti, prediletta da questi innamorati dell’equivoco). Il padre fragile, la madre fragile. Elena Ferrante, insomma…
In Canale Mussolini il padre è una roccia, la sua fertilità un prodigio; la madre potrebbe essere la magna mater dell’aurora dell’umano. Altro che fragile! Stava cogliendo una rapa, le vengono le doglie, partorisce, e poi il primo pensiero sarebbe quello di andare a finire di strappare la rapa dal campo, con il primogenito appiccicaticcio che le piange ancora addosso.
Canale Mussolini (voglio ridirlo, questo titolo stupendo) è un’oasi di grande stile immune da tutti i mali legati alla catatonia attuale. È un’energia impetuosa, estrema quella che ti porta di pagina in pagina, quasi inciampando nelle parole per andare avanti, per scoprire di più, per vedere oltre. Dal Polesine a Roma e di nuovo su in Polesine. Da lì all’Agro Pontino. Dall’Agro Pontino alla Africa. E di nuovo in Italia, nell’Agro. E sempre ci sono famiglie infinite, con dieci, quindici figli, uomini forti, sprezzanti del pericolo, magnanimi, disposti a osare, sempre. C’è l’amore che brucia il sangue, che schizza figli per il mondo, e altri figli dopo, per un popolo che cresce. C’è lo splendido vivere della liturgia della terra, l’onesto contemplare le stagioni, il giusto piegarsi alle sue regole, il sacrosanto riposo, con le sue gioie.
Ti sembra, ad un certo punto della lettura, di essere diventato anche tu parte di quella famiglia, che ha tanti di quei figli e figli dei figli che c’è di sicuro posto anche per te, lettore sfortunato del dopo, con pochi figli, poca fede, pochi sogni, poche certezze, poco gusto, poco di tutto e una gran collezione di punti premio sulla tessera elettorale. Lì no, ai tempi di Canale Mussolini, non è che proprio si votasse – ma c’era la musica.
Possibile che non l’abbiano capito, quelli dello Strega? Che gliel’abbiano fatta passare?
Adesso Pennacchi ha mandato in libreria il seguito. Canale Mussolini parte seconda. Non ho ancora avuto il coraggio di andare a prenderlo. Troppa paura della delusione. Voi cosa dite? Rischio?