C’è un problema: nella repubblica delle lettere, dire di amare Antonio Moresco fa figo. Orge di scrittori un po’ così e scrittrici un po’ così si confessano l’attrazione fatale per i Canti del caos. Passiamoci attraverso senza calpestarli e arriviamo al vero libro indimenticabile di Moresco: Gli incendiati.
Protagonista: il fuoco. L’amore quando è un fuoco. Il fuoco, che non può espellere dall’orizzonte della vita la guerra – e nemmeno da quello di una morte viva. Ma è già troppo difficile. Ricominciamo.
C’è un uomo che è un grumo di disgusto. C’è una donna bellissima che lo sta guardando senza essere vista – e lo capisce, ed è d’accordo. Ci sono, sullo sfondo, colline in fiamme, un’arena ululante di fuoco che preme già sulle case. La donna si avvicina all’uomo parlandogli con la voce calda della sua solitudine. Solo una fiamma può accostarsi così all’orecchio di un uomo e sussurrargli: “Guarda… ho incendiato il mondo per te!” E bruciarlo e continuare a ballare – a ‘crollare’ – lieve nel cerchio della propria bellezza e poi ritrarsi, dopo averlo già contagiato e reso fiamma.
Il fuoco: il grande esule di questo mondo spento. Come il coraggio: il fuoco, chi non ce l’ha, non se lo può dare. Infatti l’umanità adombrata da Moresco intorno ai due amanti è di schiavi senza intelligenza, senza volontà. Gli unici due a volere – e perciò a volersi, con una voglia estrema, di una passionalità che arriva al vaticinio – sono i due protagonisti. Niente sfugge loro e tutto diventa un imperativo: un imperativo esserci, un imperativo amare fino in fondo (ai sensi, alla carne, ai cuori), un imperativo concentrarsi, un imperativo provare a salvarsi. Non fanno che abbracciarsi, pagina dopo pagina, che sorridersi, che cercarsi, che aderire l’una all’altro, in squarci di una sensualità che è capolavoro, che è giustizia. Lei che, mentre lui è ferito dopo una sparatoria (perché c’è sempre, in sottofondo, il fuoco della guerra, e lui è un miliziano) e in stato di semi incoscienza, si spoglia e ogni notte lo scalda premendogli addosso il suo corpo bianco, biondo, nudo. Dolcemente e definitivamente (cioè dolorosamente). I sensi che diventano l’espansione del cuore. Il fuoco che ne è il contrassegno.
L’ascesi dello scrittore – l’attenzione – diviene, qui, strumento al servizio del cuore. Lui nota tutto di lei, la morbidezza della pelle intorno al naso, sotto gli occhi, il calore del cuoio capelluto, “le pieghe infantili vicino alle ascelle, nel punto dove le braccia si innestano nelle spalle”. Nessuna omissione; tutto, appunto, è un impulso ad andare più a fondo e più in alto e più lontano, dentro di lei e nel cuore rovente del mondo, della storia.
Politicissimo, questo romanzo, dove più è erotico. L’amore estremo, senza requie, l’assillo che divide i due protagonisti dalla massa, che li spinge a battersi, effonde continuo biasimo contro l’ignavia, disperazione nei confronti del progresso, insofferenza verso il querulo vociare plurale.
Moresco non è il solito narratore che si lega il bavaglio prima di piegarsi sulla tastiera. Se ne frega di essere accattivante. Il suo fuoco di verità deve bruciare. Se ne frega dei numeri di copie vendute, delle recensioni, delle presentazioni, dei favori a buon rendere. Lo senti a ogni frase che se ne frega – ed è un fuoco che comincia a uscire dal libro e a entrare in te, se sai bruciare. Se ne frega di imbandire morali, come si dice, ‘a misura d’uomo’, di essere umile e umiliato da una pietà impossibile. Se ne frega perfino di essere, tanto è distaccato da sé ed è solo fuoco, fuoco che nemmeno le lacrime sanno spegnere, fuoco di grande scrittura, di grande visione, di grande previsione, di grande ribellione.
C’è da meravigliarsi che un uomo del genere abbia la pazienza di darsi ogni anno a quelle sue marce di protesta civile (l’apoteosi del sinistrismo più deprimente) in giro per l’Italia. Che non bruci con noi.