Visionario sì, visionario no. Il dilemma è ancora aperto tra i tanti appassionati di Haruki Murakami. Tra chi appoggia la prima soluzione e chi la seconda, c’è però una certezza in questa disputa: la discriminante la fa la poesia. Lo scrittore giapponese infatti alterna opere descrittive, intimistiche, di colore pastello, a racconti più crudi, che rimandano ad altri mondi. Come Sonno o 1Q84. Tra i primi ecco After dark.
Per niente visionario. Non rimanda a nessun messaggio focalizzato. Né l’analisi specifica del libro né quella complessiva trasmettono qualcosa di chiaro, di concepibile. Né tanto meno di visionario.
La struttura del racconto può essere considerata visionaria, ma è solo apparenza. Perché la telecamera nella stanza di Eri è visionaria, ma soltanto nella forma, perché poi non ne viene spiegato il significato. E’ un elemento forzato, staccato dalla realtà della storia.
E dunque più che visionario è poetico. Le descrizioni (anche se a volte superflue) sono centrate e profonde e riescono a far passare un micro mondo intimo dei protagonisti, in cui magari il lettore può immedesimarsi. Sta in questo la poesia del romanzo. E nel fatto che è ambientato in una sola notte. I personaggi però, in un’analisi complessiva, non rappresentano qualcosa di concreto né per la storia in sé né per l’esperienza di lettura.
Per finire, tutto quello che vuole far passare Murakami semplicemente lo racconta, non lo fa capire, come invece farebbe un visionario. Sembra esserci solo un primo messaggio, non un secondo.