Il romanzo breve Intermezzo romano, pubblicato recentemente da Aspis, traduzione e cura di Marco Settimini, riporta l’attenzione dei lettori italiani sull’opera dello scrittore francese Pierre Drieu La Rochelle (1893 – 1945), qualche anno dopo l’opportuna apparizione sugli scaffali libreschi del corposo quanto ambizioso Gilles (Giometti & Antonello, Macerata, 2016) e di Una donna alla finestra (GOG, 2018), ulteriore lieto segnale di una mai sopita – quantunque bellamente minoritaria – ricezione che l’editoria nostrana riserva nei confronti della letteratura francese meno accomodante, meno asservita alla conformistica causa progressista; visti i tempi di violento revisionismo democratico, a quanto pare financo lessicale, e di messa al bando di qualsivoglia pensiero dissenziente, si direbbe altresì meno prona all’omologazione petulante dei virtuosi dispensatori di sentenze a cose fatte, censori e moralisti, addetti alla cultura appollaiati comodamente in cattedra, miopi giudici della Storia col ditino alzato, quasi cent’anni dopo perbacco, invecchiati malamente nei loro barbosi pregiudizi. Archeologia politica, chissenefrega. D’altronde stiamo trattando di un intellettuale fascista, tendenzialmente misogino e per giunta sucida, sicché risulterebbe vano tergiversare in accomodamenti ipocriti. Pare addirittura ozioso spiegare quel tipo di pensiero romantico, d’impeto fuori stereotipo, l’europeismo quale eroismo disperato stretto nella morsa tra capitalismo e comunismo, mettendosi qua a perorare cause perse, o peggio a lambiccarsi, stemperando in qualche modo l’azzardo filogermanico di un dandy parigino per amore di bellezza, piegando l’arte – va da sé contraddittoria, estetizzante, umorale, talvolta addirittura pigramente incoerente – del romanziere d’origine normanna, riportandolo ad obsolete categorie di buoni e cattivi: il parametro degli stolti. Anzi, nel caso specifico, tutto peculiare, di Drieu la faccenda si fa decisamente più complessa, impermeabile a qualsivoglia giudizio schematico o verdetto preconfezionato, valutando quest’ultimo criterio d’interpretazione inadeguato per carenza di stile, d’educazione, di sensibilità.
Verrebbe voglia di chiudere qui, affermando ad uso contemporanei: Non ve lo meritate Pierre Drieu La Rochelle, non dovreste affatto leggerlo, non potreste permettervelo anche solo per diffusa carenza di buon gusto. Tant’è che certi autori vanno amati e accuditi a maggiore ragione da morti, guadagnati oppure inevitabilmente perduti: certi scrittori riescono a farci credere di assomigliare loro, mentre non ci accorgiamo di averli ingenuamente presi a modello. Mimetismo inconcludente si dirà, simulacro perdente. Hanno apparecchiato con cura il banchetto del nostro fallimento d’occasionali epigoni, desco tristemente emulativo, lasciandoci senza ulteriori parole: le avevano già scritte loro, decisamente meglio. Cos’altro aggiungere, oltre all’ammirazione? Certi romanzieri conservano addirittura il privilegio di giudicarci, pagina dopo pagina, quali inadeguati lettori: meriteremmo tutti uno sputo in faccia, la cecità o l’analfabetismo, tanto è insignificante il nostro verboso nullismo, codesto vacuo comunicare alcunché di impellente o importante, becero sollazzo tutto moderno. Se v’è una rara possibilità di perfezione, nella vita d’un uomo, ecco, questa consiste proprio nella fatalità bruciante di aderire ad un destino, anzi al Destino, foss’anche quello tragico di un suicida braccato dalla trappola che egli stesso s’è creata, ma colà, in prossimità del cappio al collo o del veleno da ingurgitare, naturalmente elegante, opportunamente dotato di un raffinato guardaroba, anche se inservibile il giorno dopo. Conta il gesto, in qualsiasi occasione, e che sia ben fatto. La sventura di possedere buon gusto, in tempi assai volgari, ieri come oggi (benché oggi decisamente peggio), assomiglia ad una tortura. I vestiti appropriati, i fiammiferi e le sigarette, le femmine e le parole giuste, l’alcol… gradualmente si finisce col prendere atto dell’incomunicabilità sociale. Vanità reazionaria. La morte di Pierre Drieu La Rochelle fu, al di là delle contingenze belliche e politiche, un romantico attestato di combattimento, l’ultimo possibile assalto domestico, borghese eppure epico corpo a corpo: pensiero contro pensiero, gesto contro gesto, duello contro la seducente decadenza, sfida ai mostri del nichilismo. Vendetta contro la vecchiaia.
Mentre hai pronunciato o scritto la parola Amore questa s’è già corrotta, violata, sfiorito l’attimo s’è fatta rappresentazione consolatoria, falsità, retorica, fuffa, delazione, collezionismo di farfalle, rievocazione storica acconciata in stracci ricamati e palandrane merlettate d’epoche passate. Ricordo trasfigurato. Drieu lo sa bene e se ne compiace a Roma come a Parigi o a Berlino, allestendo tutt’attorno al cratere femminile il suo disilluso martirio mondano. Il suo indolente viaggio romano, per l’appunto. Anticipato dal bozzetto La voce e chiuso da una manualistica sentimentale al solito spietatamente autobiografica – Appunti per un romanzo sulla sessualità – l’intermezzo capitolino rilascia tutto quel disgusto trattenuto, tedio e disincanto frammisti a pudore, tratti tipici degli snob che snobbano lo snobismo e che praticano la sprezzatura dei luoghi comuni, a maggior ragione il rigetto dell’ammorbante cliché turistico. Che farsene di musei e rovine a cielo aperto, quando si potrebbe vivere? L’occhio nordico tende invece alla massima precisione, chirurgico scruta la feccia periferica, i residuati selvaggi della plebe così come l’alta società nobiliare ovunque decaduta in muffosi rituali, trapassa i formalismi in cerca di un rantolo d’umanità realistica, quantomeno verosimile, trascurando proprio quel fascismo scenografico, già tronfio di balcone e adunate comandate, barocco e borghese, biecamente nazionalista, che l’autore ha finto d’amare fino alla fine. Velleità pericolose ch’egli pagherà in coerente autodafé, parafilie d’un eterno insoddisfatto.
Qua, ad esempio, c’è il capriccio d’Edwige, musa di marmo tutta da inventare dietro il bel portamento, o scolpire per uso personale, nobildonna perfetta da idealizzare con stanca, spossata virilità, ennesima reginetta da salotto posata su scacchiere d’alabastro, giocando senza avversario. Il protagonista ne è attratto, ma più convintamente solo dopo averne colto il lato drammatico avrà la voglia d’amarla. Il difetto rende la donna perfetta, fosse solo bella annoierebbe presto. Aleggia pur sempre lo spettro di Dora, l’americana perduta e irrimediabilmente lontana, figura vitalista ricorrente nella letteratura di Drieu (l’assente moglie Dorothy in Fuoco fatuo), alibi dell’eterno rimpianto maschile per conseguenti, talvolta puerili, inconcludenze. L’homme couvert de femmes non è altro che un equivoco onanista, assalto incapacitante di un gentiluomo che avrebbe voluto essere barbaro a suo discapito, afflato pregno di incertezze e soggiorno predisposto all’abbandono. Andarsene, ecco l’esito di ogni desiderio già vissuto, prima della pantomima. L’uomo pieno di donne non è che un solitario dalle belle maniere, un genio fallito per troppa raffinatezza, alla vana ricerca d’una madre comprensiva, forse d’una crocerossina amorevole, oppure di una puttana.
Io scrittore francese rilancia rinculando, afferma smentendo, assalta ritirandosi, dichiara rinnegando perché sa bene che tutto è, quasi sempre, un clamoroso autoinganno. Un personale gioco perdente, perciò s’attacca al movimento sovente irrazionale, pur di non stagnare nello squallore borghese. D’altronde anche le illusioni debbono avere un loro carisma per mantenersi tali, qualora ne fossero prive le voglie sbiadiscono, sprofondano in accondiscendenti malinconie. Epperò egli s’aggrappa a quel “quasi”, sinonimo di vivere, ficcandogli dentro tutta la metafisica possibile, l’eredità di una sovranità smarrita risolta in abbozzi di fughe mistiche, i vessilli della guerra quale iniziazione, l’ebbrezza brutale dei viziosi incapaci di farsi eroi. Consumato dal desiderio e al contempo diffidente nei confronti del piacere sempre così effimero, l’io narrante s’arresta in una introspettiva, inclemente, insoddisfazione, sovente autoreferenziale, come se il mondo coi suoi giullari e mestieranti, e la vita stessa, fossero esattamente quello che sono: passatempi. La donna può mettere in crisi questo meccanismo egocentrico, ma solo raramente, quando si manifesta in purezza, magari per caso, bendata come una sorpresa della fortuna, la gioia non premeditata, l’epifania misteriosa d’un bordello: rifugio per timidi spavaldi, per delicati arroganti, la camera in affitto di voglie immediate, ultima enclave dei maschi. Quell’amore frugale, consumato d’urgenza e con furente ignoranza, animalità che odora già d’addio, che profuma d’abbandono a pagamento, possesso ed oblio, offre all’autore un pretesto marginale d’assenso alla vita, gli ultimi privilegi cavallereschi, la spada in pugno e lo sterco fumante dell’animale fedele dopo aver posseduto il corpo d’una donna. Drieu è un uomo che ama se stesso crudelmente e perciò si detesta con scrupoloso metodo: troppo acuto per accontentarsi della verità mondana o per credere alla menzogna che bellamente allestisce coi suoi diaristici pseudonimi – si direbbe indossando se stesso alla perfezione, come un vestito su misura – s’adopera senza risparmio per allestire smentite, dinieghi, commiati, congedi e rimpianti, chiedendo semmai ospitalità al casino e alle sue vergogne, riservando le mestizie più intime alla prima che passa. Ad una femmina senza memoria.