Il 3 gennaio 1893 nasceva a Parigi uno tra i più grandi scrittori francesi, Pierre Drieu La Rochelle. Misconosciuto nei programmi scolastici in Francia, analogamente ad esempio a quanto avviene in Italia per un Ezra Pound o per un Berto Ricci, egli resta uno tra i massimi interpreti della “crisi” anteguerra del mondo liberale e borghese, cui comunismo e fascismo tentarono di dare una risposta. Nel 1934 Pierre Drieu La Rochelle pubblicava “Socialismo fascista” un libro cruciale per capire le dinamiche politiche della modernità. In questa opera Drieu esaminava l’inconsistenza delle categorie “destra-sinistra” come già andava manifestandosi nella sua epoca, quella tra le due guerre mondiali. Caricate di valenze quasi metafisiche in realtà dette categorie sono storicamente mobili, i loro contenuti sono interscambiabili e possono giungere a fondersi in inedite sintesi. Tale fu, per l’appunto, la sintesi, o il tentativo di sintesi che produsse il fascismo quale convergenza e fusione tra nazionalismo e socialismo. Un tentativo in via di gestazione quantomeno dalla metà del XIX secolo e, forse, anche dall’epoca giacobina e dall’età romantica (con tutto il connesso democratico-risorgimentale per quanto riguarda l’Italia). Pierre Drieu La Rochelle, tuttavia, non usò affatto toni apologetici. Nella sua opera, pur aderendo idealmente al tentativo, mantenne un certo distacco da studioso che registrava le tendenze del suo tempo e non esitava, insieme all’apprezzamento di diversi aspetti – quelli innovativi e rivoluzionari, di “sinistra” –, a sottoporre a critiche altri aspetti dei regimi fascisti e dei movimenti francesi che ad essi si ispiravano e che, a suo giudizio, non erano ancora giunti ad una efficace sintesi tra socialismo e nazione. In particolare al nostro rimaneva indigesto il conformismo corale, d’altro canto connesso inevitabilmente al consenso di massa di cui i fascismi godettero, e che, tuttavia, Pierre Drieu La Rochelle comprese perfettamente pur da libertario quale egli era: «La libertà è sfinita, l’uomo deve ritemprarsi nelle sue più oscure profondità. Sono io a dirlo – io, l’intellettuale, l’eterno libertario» scrisse in “Socialismo fascista”
Alla fine del suo percorso alla ricerca di nuove sintesi che frenassero la decadenza spirituale dell’Occidente, Drieu credette di aver trovato ciò che cercava nel Partito Popolare Francese, fondato da Jacques Doriot, all’epoca forse il più noto comunista francese. Il PPF voleva incarnare la sintesi tra socialismo e nazione, da un lato in polemica con il PCF, inchiodato all’operaismo internazionalista, e dall’altro con il nazionalismo monarchico e conservatore dell’Action Française di Charles Maurras. Mosso da questa esigenza di sintesi nazionale e sociale, Drieu conserverà sempre un devoto ricordo dei fatti parigini del 6 febbraio 1934 allorché fascisti e comunisti francesi insieme tentarono l’assalto al palazzo governativo per abbattere la Repubblica borghese affossata dagli scandali finanziari e dalla corruzione. Nel suo romanzo “Gilles” troverà ampio spazio, quale sottofondo della narrazione, la scena degli eventi parigini del 1934.
Al tempo stesso Drieu, in compagnia con tutta l’intellighenzia francese non conformista degli anni ’30, da Robert Brasillach a Thierry Maulnier, da Robert Aron a Daniel-Rops, da Jacques de Fabrègues a Henri Massis ed a Louis Ferdinand Celine, approdò ad un convinto europeismo terzaforzista: l’Europa quale terza forza anticapitalista ed anticomunista che sarebbe sicuramente nata dalle rivoluzioni nazionali e socialiste allorché esse avessero, finalmente, superato il ristretto orizzonte nazionalistico per recuperare le radici millenarie dell’identità europea. «Me ne frego dell’uguaglianza, – scrive Drieu – o piuttosto la detesto come detesto tutte le cose che non esistono. Fin dal 1918 ho intuito nel comunismo russo la fucina di una nuova aristocrazia. Non mi ero sbagliato. E cerco questa nuova aristocrazia nel “socialismo europeo” – nel fascismo» (1). Una visione dell’Europa molto diversa da quella poi delineata nel dopoguerra a partire dal Trattato di Roma e fino al Trattato di Maastricht.
Il 15 marzo 1945, di fronte al tragico crollo delle sue speranze – erano del resto speranze idealmente vissute ma perfidamente “tradite” dalla realtà degli stessi fascismi, che nella loro concretezza storica si mostrarono alquanto distanti dal “fascismo immaginario” ed “ideale” cui avevano aderito i maggiori esponenti dell’intellighenzia europea del tempo –, Drieu La Rochelle pose fine alla sua vita, reclinando il capo sulle pagine aperte delle Upanishad indù.
Si suicidò auspicando, significativamente, la vittoria dell’Unione Sovietica sulle democrazie borghesi angloamericane, perché solo la Russia, quella tradizionale che covava sotto la sovrastruttura dell’Urss, poteva ancora opporsi, a suo giudizio, alla decadenza del mondo occidentale. Benché, in uno scenario completamente diverso dal suo – egli non disdegnava la forza del comunismo tuttavia reinterpretato come “nuova aristocrazia” –, possiamo dire oggi che in effetti Drieu fu in questo “profetico”, dato che la Russia, riemersa dall’apnea comunista, attualmente è una delle poche nazioni ancora capaci di opporsi alla globalizzazione occidentalista. Drieu il 29 marzo 1944 scriveva nel suo diario: «In ogni caso saluto con gioia l’avvento della Russia e del comunismo. Sarà atroce, atrocemente devastante, insopportabile per la nostra generazione che perirà tutta di morte lenta o improvvisa, ma è meglio questo che il ritorno del ciarpame anglosassone, della ripresa borghese, della democrazia rabberciata».
Secondo l’ultimo Drieu il vero pericolo per l’Europa non era Mosca ma Washington: «Bisogna augurarsi la vittoria dei russi piuttosto che quella degli americani. […] I russi hanno una forma, mentre gli americani non ne hanno. (…). Quando si ha una forma, si ha una sostanza; ebbene, i russi hanno una forma» (3 marzo 1943). La Russia sovietica, per l’ultimo Drieu, era l’estremo baluardo alla decadenza dell’Europa: «Quello che mi piace nel trionfo del comunismo è non solo la scomparsa di una borghesia detestabile e ottusa, ma anche l’inquadramento del popolo e la rinascita dell’antico dispotismo sacro, dell’aristocrazia assoluta, della teocrazia definitiva. Scompariranno così tutte le assurdità del rinascimento, della riforma, della rivoluzione americana e francese. Si torna all’Asia; ne abbiamo bisogno» (25 aprile 1943).
La Rivoluzione dei piccolo borghesi
L’importanza attuale di un libro come “Socialismo fascista” di Drieu sta, in particolare, nella consapevolezza, che percorre tutta l’opera, del ruolo chiave che nella moderna società industriale giocano i cosiddetti ceti medi, incastrati tra capitalismo e classe lavoratrice e, come tali, potenziali antagonisti tanto del liberismo che del comunismo. Non è un caso che oggi, in tempi di disastrosa globalizzazione capitalista, ad essere stritolati dai meccanismi perversi della finanziarizzazione dell’economia, a danno dell’economia reale, sono proprio i ceti medi, carne da macello sulla quale sta trionfando il grande capitale anonimo ed apolide, quello di Amazon, della Goldman Sachs, di Deutsche Bank, etc..
Drieu ci ha lasciato una lucida analisi della “piccola borghesia” ribelle ai miti del mercato e del comunismo. E lo ha fatto parlando innanzitutto di sé stesso: «Esistono le classi? Non lo credo. E non lo credo perché sono un piccolo borghese: appartengo a tutte le classi ed a nessuna. Le detesto e le apprezzo tutte. Infine perché non avrei il diritto di parlare, perché non dovrei aver ragione? Forse che nella mia posizione media non sono tutto? Sono tutto. Parlo, quindi mi si ascolti. Non voglio che si abusi ancora della parola “lavoratore”. Noi, anche noi, siamo lavoratori. Anche i contadini ed i borghesi sono lavoratori – né più né meno degli operai. Certo, se quello dell’operaio è considerato il lavoro per eccellenza è perché esso veramente è il più duro, il lavoro della macchina. Ma quello d’ufficio non lo è da meno. Voglio difendere l’operaio come una parte del mio stesso sangue, come una parte del popolo. Voglio difenderlo contro la grande città. E grande città significa capitalismo. Perché non sono comunista? E perché non sono reazionario? Ancora, perché sono un piccolo borghese e non credo che ai piccoli borghesi: a quella specie di piccoli borghesi che hanno del nobiluccio, del borghese che esercita professioni liberali, del contadino, dell’artigiano, ma che non amano il funzionario, né il burocrate, né l’operaio che abbia dimenticato la propria vera origine. Nulla è stato mai fatto se non per mezzo nostro. E il socialismo o sarà realizzato da noi o non sarà mai. (…). Siamo la massa delle individualità, la materia coagulante di tutte le classi. Siamo quelli che non appartengono a nessuna classe: gli uomini liberi» (2).
Nella nostra età digitale il lavoro, sia quello manuale ed operaio sia quello impiegatizio ed intellettuale, sta per essere sostituito dalla robotizzazione. Probabilmente l’establishment finanziario globalista imporrà una riduzione drastica del livello demografico della popolazione onde sostenere l’equilibrio di mercato della futura produzione automatizzata. Ma senza dubbio il ceto medio anche ai nostri tempi è il vero antagonista della globalizzazione. Con la differenza che ai tempi di Drieu il ceto medio giocava all’attacco, appunto nella forma del socialismo fascista, mentre attualmente esso gioca in difesa una partita da cui dipende la sua stessa sopravvivenza come soggetto sociale.
La genesi nazionalista del socialismo nella modernità statuale
Drieu nel suo niccianesimo – che è d’altro canto il Nietzsche della sua epoca, come interpretato ai suoi tempi – è lontanissimo dal Cattolicesimo dell’autore di queste considerazioni che tuttavia non esita a riconoscergli l’onestà intellettuale di chi ha vissuto nella ricerca del Vero ed ha pagato di persona senza mai chiedere prebende ai vincitori o scusa per quel che egli era. Drieu è stato un testimone scomodo, odiato dalla destra e dalla sinistra, del suo tragico tempo che fu l’epoca della statualità coincidente con la modernità. Anzi con la fase estrema della modernità che, proprio in quegli anni, era in procinto di scivolare verso la post-modernità, verso la società liquida di Baumann, nella quale ogni certezza, anche quelle delle fedi politiche che avevano sostituito la religione, anche quelle della scienza inalberata a nuovo dogma, anche quelle del razionalismo giuridico che aveva elaborato la forma Stato del Politico, sarebbe venuta meno mentre l’orizzonte umano sarebbe sprofondato nell’abisso del nichilismo, del Nulla, approdo terminale per la vittoria dell’“imperialismo internazionale del denaro” (Pio XI).
Un imperialismo, questo, che per trionfare ha bisogno, per l’appunto, di abbattere tutte le certezze, comprese quelle artificiali della modernità, per lasciare sul trono soltanto il potere del capitale, della moneta ormai separata, nella sua forma virtuale e cibernetica, da qualsiasi controllo statale. Pura astrazione finanziaria del dominio globale del capitale anonimo. L’esito postmoderno del processo di scristianizzazione, inaugurato dalla modernità, impone, dunque, una ultima riflessione sul contributo che gli stessi totalitarismi hanno dato a questo esito e sul contributo che, per altro verso, ad esso hanno dato le posizioni anti-totalitarie del Cattolicesimo politico nel rovesciamento liberale dell’originario tradizionalismo post 1789.
Nel suo libro del 1934 Pierre Drieu La Rochelle annotava: «Il fascismo si serve del nazionalismo per imporsi al capitalismo; in seguito turba ed altera il sistema capitalista nella misura in cui le necessità del nazionalismo lo obbligano a fare del socialismo – meno forse di quanto prometta all’inizio, ma ben presto più di quanto vorrebbe. Di modo che ciò che all’origine unisce capitalismo e fascismo, ossia il nazionalismo, in seguito li divide poiché genera il socialismo» (3).
Difficile cogliere con parole più incisive l’effettiva dinamica storica del fascismo al potere, in quegli anni. Una dinamica che spinse anche Nicola Bombacci, cofondatore nel 1921 insieme a Gramsci e Bordiga del PCd’I, ad aderire al “socialismo fascista”, prima silenziosamente mediante la pubblicazione negli anni del regime, con il benestare del suo vecchio amico Benito Mussolini, di una rivista che contribuisse a rafforzare i contatti diplomatici e commerciali tra Roma e Mosca, e poi platealmente con la Repubblica Sociale, per “realizzare il socialismo” come disse in quell’occasione al suo amico, in quel momento in disgrazia, motivando la sua scelta fascista repubblicana.
Drieu intuì le radici socialiste del fascismo e ne evidenziò le origini all’interno della stessa tradizione socialista. Comprese d’altro canto che anche il nazionalismo, inalberato dai fascismi, per sua essenza non poteva lasciare spazio ad una concezione liberista ed internazionalista dell’economia. Per questo non esitò ad aggettivare come fascista il socialismo inevitabile del nazionalismo. Da qui la legittimità politica di una espressione come “socialismo fascista”
«I nazionalismi – egli scrisse nel suo libro del 1934 – si chiudono nell’austerità autarchica, in una povertà circondata dalle dogane che hanno voluto. Una povertà che può essere ricchezza. (…). Mi chiedo se la povertà … non nasconda una ricchezza morale. Ebbene sì! C’è … una forza morale … nell’Italia di Mussolini. Ciò significa che il fascismo non è qualcosa di miserevole (…). Alla base dell’energia morale di ogni fascismo c’è innanzitutto un’attitudine al sacrificio … che sarebbe pericoloso negare. Il secondo pilastro su cui poggia l’energia morale del fascismo … è costituito da tutto il socialismo che ha assimilato. Lo si voglia o no, nel fascismo … si è trasferita gran parte della genuinità del sindacalismo dell’anteguerra e la maggior parte dell’energia morale che animava il marxismo dell’Europa occidentale e centrale nei primi anni di questo secolo. Dirò di più: il fascismo ha profittato della crisi morale provocata nel mondo dagli avvenimenti del 1917. Ne ha approfittato molto più dei vecchi partiti socialisti … e più degli stessi partiti comunisti (…). La marcia su Roma e quella su Berlino non costituiscono affatto una pura e semplice reazione alle lontane ondate dell’ottobre 1917. Sono derivazioni più che reazioni. (…). Lascio agli pseudorivoluzionari la vergogna di considerarmi un paradossale, e affermo che la mia fiducia nell’avvenire del socialismo nasce dallo spettacolo che offrono oggi i paesi fascisti. Se non ci fosse questo spettacolo complesso ma ricco di segni indicativi, sarei senza speranza perché avrei sotto gli occhi solo la triste agonia del socialismo ufficiale delle vecchie democrazie. Quanto a Mosca non ho mai rimproverato a Stalin la violenza dei suoi metodi (…). Si, c’è molto socialismo in fermento nel mondo fascista, E non si tratta solo del socialismo inevitabile previsto dal fatalismo di Marx, della lenta discesa al socialismo attraverso il cambiamento graduale delle strutture capitaliste, secondo la legge forgiata dal determinismo perentorio dei dottori marxisti del secolo scorso. Ma si tratta soprattutto del socialismo vivo, volontario, elastico, pragmatico: quello di Owen in Inghilterra, di Proudhon in Francia, di Lassalle in Germania, di Bakunin in Russia, di Labriola in Italia; esso è sempre stato tenuto a freno dai successi apparenti di un marxismo … dominato da un’opacità e da una pesantezza senza rimedio. Attraverso il fascismo sia a Berlino che a Roma si sta risvegliando il socialismo non marxista. (…). Ma fin dove può giungere, fino a che punto può svilupparsi l’innegabile energia socialista del fascismo? Quali obiettivi può raggiungere? A parer mio i progressi del socialismo a Berlino e a Roma saranno proporzionali alla persistenza del nazionalismo in Europa (…). Ancora un paradosso della storia! Socialismo e nazionalismo, che per la mentalità di fine Ottocento erano irrimediabilmente ostili, si avvicinano e si aiutano a vicenda. (…) dobbiamo lucidamente constatare che dall’Europa orientale a quella occidentale … i nazionalismi sono riusciti in questo ultimo lustro a vincere le forze di espansione internazionalista, cioè il grande capitale e il socialismo della Seconda Internazionale. Il grande capitalismo delle banche e dei trust ha dovuto cedere di fronte al nazionalismo dei piccolo borghesi francesi, così come il socialismo ha dovuto cedere di fronte alle masse di operai e di impiegati dominati dalle banche e dai trust. Ma si è prodotta una controreazione inattesa: le patrie fasciste sono costrette, per mantenersi in vita, a fare del socialismo dietro le loro dogane. Ne devono fare molto e ne dovranno fare ancora di più in seguito. Non è certo il socialismo che sognavano quanti fino a ieri venivano definiti socialisti: sono pronto ad ammetterlo. Ma anche il socialismo di Stalin non è quello che essi sognavano. Ciò che importa è che questo socialismo sia stato sufficiente ad incrinare per sempre il meccanismo del capitalismo mercantile così come funzionava nel secolo scorso.» (4).
John Maynard Keynes, l’economista innovatore della scienza economica classica, che meglio di tutti gli altri seppe interpretare la modernità statuale nello scenario dell’economia di quel periodo – le politiche interventiste keynesiane inaugurate negli anni ’30 sarebbero durate fino agli anni ’80-90 del secolo scorso –, usò nelle sue opere parole molto simili a quelle che Drieu ha invece usato per descrivere la dinamica del “socialismo fascista” la quale, in fondo, era la stessa dinamica, inevitabile dopo la grande crisi del 1929, di “statualizzazione” dell’economia di mercato intravista in atto dall’economista inglese anche nelle democrazie liberali
«Ormai è passato il tempo in cui il capitalista guardava il fascismo con un sorriso di compiacimento considerandolo un insperato tutore dell’ordine. Oggi il capitalismo sa … che la forza del sistema, la concorrenza, è ormai distrutta, e che con essa è venuta meno la pretesa liberale con cui si mascherava (…) il fascismo … sfrutta contro il capitalismo l’enorme debolezza in cui esso affonda in seguito alla progressiva limitazione della concorrenza. (…). Il capitalismo sfinito ha bisogno dello Stato per risollevarsi: quindi si dà anima e corpo allo Stato fascista. Il meccanismo interno del capitalismo conduce direttamente alla sua statizzazione. Qualcuno … dirà che … la statizzazione del capitalismo altro non è che il capitalismo di Stato, che non si riesce a comprendere quali rapporti possa avere tutto ciò con il socialismo, e che anzi esso ne è il contrario. Proprio così. Il capitalismo di Stato è anche la riconquista del capitalismo da parte dello Stato. A questo punto può accadere di tutto. E questa riconquista dello Stato è un vero e proprio cambiamento di direzione dell’economia. Dal momento in cui il capitalismo si muove entro le strutture statali, non lavora più per fini privati, ma lavora ipso facto per fini comunitari e in un certo senso limitati. Gli uomini che lavorano in un tale sistema non possono più comportarsi secondo una legge del massimo profitto, ma secondo quella del massimo prestigio in cui sarà presente un minimo di spiritualità. Fini comunitari, fini limitati, fini spirituali. (…). Il socialismo si è inserito nell’edificio capitalista senza rovesciarlo. (…). Questo è il concetto centrale del fascismo. Chi non vede in esso la dottrina dello stesso socialismo riformista? Il fascismo è socialismo riformista, ma un socialismo che, a parer mio, ha maggiore ricchezza ed energia di quello dei vecchi partiti classici. (…). I grandi capitalisti in Germania ed in Italia si rassegnano ad essere dei commissari del popolo per l’economia ma commissari lautamente pagati (…). Non sono più i proprietari e nemmeno i padroni che la critica marxista denunciava: sono alti funzionari, non per diritto di eredità ma reclutati per cooptazione, che dividono prestigio e influenza con i loro sorveglianti statali. Ecco la piega che le cose sembrano prendere al momento. La conserveranno? I fascisti … dicono di no. Noi galvanizzeremo questo organismo modificandolo – affermano – lo impregneremo del senso dei valori spirituali che abbiamo riconquistato, sostituiremo la molla del lucro con quella del dovere. In fondo essi tendono ad una concezione spirituale ed estetica della società.» (5).
I paradossi del “totalitarismo”, le sue forme postmoderne e le illusioni del cattolicesimo politico
In queste riflessioni di un uomo degli anni trenta del XX secolo sono evidenti le speranze e le disillusioni di una generazione che si affidò alle religioni politiche per colmare il vuoto lasciato dalla secolarizzazione. Drieu comprese l’esito totalizzante della modernità, nella sua fase estrema, ma non poteva, ai suoi tempi, immaginare che la postmodernità avrebbe prodotto forme nuove della concezione totalitaria della vita senza, tuttavia, intaccarne l’essenza profonda.
Astraiamo, qui, dalla ampia discussione intorno al termine “totalitarismo”, assunto nella politologia liberale al ruolo di un contenitore indistinto del “male assoluto” in tutte le sue modalità, dal fascismo al comunismo. Nella realtà storica nulla fu più “pluralistico” – nel senso della lotta interna tra diversi centri di potere – del preteso totalitarismo, sicché l’uso liberale della parola è altamente pressapochista. Precisato questo, qui vogliamo usare detto termine in una specifica accezione, senza dare alla stessa patente di compiutezza o di dettaglio scientifico. La parola “totalitarismo” ci serve soltanto ai fini del nostro discorso sulle intuizioni di Dreiu. Intendiamo così, con il termine totalitarismo, in relazione alla fase estrema della modernità che fu il XX secolo, l’aspirazione, sempre storicamente imperfetta, a inglobare nello Stato, partorito dalla modernità, il pluralismo sociale, esistente per natura nella comunità ad esso sottostante, fino a pubblicizzare ogni livello intermedio, quindi particolare e privato, sussistente tra lo Stato ed il singolo.
Come abbiamo detto si è trattato di una aspirazione mai perfettamente realizzata e tuttavia essa denunciava l’onnicomprensività che caratterizza sin dal suo esordio hobbesiano l’idea moderna dello Stato, molto differente dalla tradizionale, medioevale, Autorità politica. Nel medioevo l’Autorità politica, regale o imperiale che fosse, era in un rapporto di sovra-ordinazione e di distinzione con le communitates particolari e le libertates concrete ad Essa sottostanti. Al di sopra del Politico vi era il Sacro in una gerarchia che, sebbene avesse anche riflessi sociali inevitabili in un mondo terriero-artigiano-mercantile, non si basava, in linea di principio, sulla stratificazione sociale ma su principi metafisici. Lo Stato totalitario, al di là delle sue aporie interne, ha rappresentato invece la punta di massima approssimazione storica dell’organizzazione sociale alla tendenza onni-fagocitante della forma politica Stato che, lungo i secoli moderni, è andata sempre più ampliando la sua estensione a discapito delle comunità minori.
La polemica tradizionalista, cattolica ma anche di diverso segno spirituale (si vedano gli scritti evoliani sulla differenza tra Stato organico e Stato totalitario), muove dalla critica a questo carattere onni-fagocitante della modernità politica. E’ una polemica che nasce con il 1789 e che se in prima battuta coincide (vedasi Joseph De Maistre o Louis De Bonald) con la difesa del Trono e dell’Altare, lungo il XIX secolo si è articolata assumendo una caratura culturale indipendente dalla mera questione monarchica fino a perdere, ad esempio con Maurras e l’Action Francaise, persino il suo riferimento alla Trascendenza sostituita con il diritto storico della nazione, secondo la sociologia comtiana dei Taine e dei Renan.
In ambito cattolico, il riferimento alla Trascendenza naturalmente rimase imprescindibile benché questo non impedì l’aggiornamento dell’organicismo filosofico-politico, proprio di tale tradizione culturale, fino a rovesciarlo da posizioni legittimiste a posizioni democratiche, che condividevano – ecco il punto! – il medesimo approccio organicista. La storia del cattolicesimo politico ottocentesco, fino alla svolta modernista alla fine del secolo, prima soltanto politica e poi anche teologica, testimonia la dinamica di questo processo di rovesciamento del tradizionalismo in un organicismo immanentista, meramente sociologico.
Alla luce di questa trasformazione del tradizionalismo cattolico, insieme storica e filosofica, se ne possono comprendere anche gli ultimi esiti liberali. A fronte della pretesa “totalitaria” del fascismo e del comunismo, una parte della cultura cattolica, influenzata dall’ex maurassiano Jacques Maritain (ma non solo da lui), passò, nel novecento, su posizioni liberali rivendicando – attenzione, cari tradizionalisti: in piena sintonia e continuità con la polemica originaria del tradizionalismo contro lo Stato moderno fagocitatore delle comunità inferiori! – la difesa delle libertà associative naturali, ossia dei corpi intermedi, in nome del principio di sussidiarietà, fino a rasentare un mal inteso individualismo nella confusione filosofica, che non era neanche maritaniana ma semplicemente liberale, dell’“individuo” con la “persona”.
Da qui la scomparsa dall’orizzonte della cultura e della politica cattolica, nel dopoguerra, di qualsiasi, pur tradizionalmente legittima, idea di Stato inteso quale naturale Autorità politica. Una scomparsa che accelerò il passaggio politico del tradizionalismo cattolico al liberalismo cattolico dopo la fase transeunte del cattolicesimo liberale. Anche tutta la diatriba intorno alle differenze tra il corporativismo cattolico ed il corporativismo fascista mostra da un lato la continuità del cattolicesimo politico con la sua originaria radice tradizionalista e dall’altro, proprio a causa di un eccesso di reazione anti-statualista a fronte degli eccessi totalizzanti del fascismo, la pericolosa tendenza a sposare il liberalismo moderno con la sua rivendicazione, contro lo Stato, quindi contro il Politico – nella modernità Stato e Politico si identificano –, del primato della “società civile”.
Questo primato coincide tuttavia, nei fatti se non nelle idealità romantiche dei cattolici liberali, con il primato del mercato. In questa “discesa” verso il liberalismo, tuttavia, i cattolici non si sono posti domande sul carattere, come vedremo fra poco, anch’esso totalizzante del mercato. Essi non hanno compreso che il mercatismo – ovvero l’idea che il mercato coincida con il mondo e che esso sia la vera ed unica realtà antropologica (perché questo è il nucleo duro, profondo, irrinunciabile, dell’ideologia liberale), insomma, parafrasando Hobbes, che il mercato sia un “dio mortale” – è l’approdo finale del processo storico di scristianizzazione. Certo se la Cristianità è ormai morta resta, perché Essa non è di costruzione umana, la realtà della Chiesa, ma questo è un altro discorso.
Quando, prima della proclamazione della dittatura, il giovane deputato popolare Alcide De Gasperi, durante un dibattito parlamentare, polemizzando con Benito Mussolini, già capo del fascismo, per spiegare le posizioni politiche dei cattolici del PPI, affermò «Noi distinguiamo tra Stato e società» intendeva riferirsi alla vocazione tradizionalista originaria del cattolicesimo politico. Tuttavia egli già alludeva al rovesciamento liberale dell’organicismo tradizionalista che, più tardi, come capo dei primi governi del dopoguerra, avrebbe perseguito, addirittura contro le pressioni vaticane che spingevano per una politica dei cattolici intesa ad implementare, dopo le elezioni del 1948, uno Stato cattolico con tanto di apparato istituzionale e sociale organico, ossia corporativo, sul modello dei regimi catto-nazionali (ma non fascisti) portoghese e spagnolo di Salazar e di Franco.
La scelta liberale, accettata dai cattolici nel dopoguerra, alla lunga si è mostrata incapace non solo di resistere al processo di scristianizzazione ma anche incapace di cogliere le aporie interne allo stesso liberalismo destinato, solo paradossalmente contro i suoi ideali libertari, a partorire una nuova forma di totalitarismo, ovvero di inglobamento dell’esistenza umana nel solo novero, chiuso ed asfittico, dell’immanenza. Quella forma di totalitarismo che oggi conosciamo come globalizzazione ossia la riduzione del mondo al mercato globale, nel quale qualsiasi realtà antropologica, politica e sociale, ad iniziare dagli Stati, viene assorbita e dissolta grazie anche alla tecnologia digitale capace di travalicare, in tempo reale, barriere e distanze per unificare orizzontalmente i popoli.
Il fatto che oggi piattaforme informatiche private e multinazionali come Facebook e Twetter, di proprietà del multimiliardario Zuckenberg, possa, semplicemente chiudendone l’account, togliere la parola perfino al Presidente degli Stati Uniti, ossia al vertice politico della potenza imperiale americana, dimostra quanto il potere della finanza globale, che controlla il web, sia estremamente più forte dello Stato, di qualsiasi Stato, e sia in grado di annullare ogni potere politico, benché democraticamente letto, laddove non gradito all’establishment. E’ stato già coniato, in proposito, il termine di “de-piattaformizzazione” che in un mondo sempre più virtuale replica l’antico bando di ostracismo ma secondo modalità di potenza inusitata. Perché la de-piattaformizzazione non si limita a privare la persona dei suoi diritti politici e sociali ma addirittura la cancella dalla realtà che attualmente coincide con la virtualità della rete. Si pensi, ad esempio, al giorno nel quale il denaro, sempre più virtuale, passerà tutto, in forma di input cibernetico, su queste piattaforme informatiche. Sarà a quel punto assolutamente facile privare chiunque per qualunque motivo non sia gradito al Potere Globale della stessa possibilità di vivere, ossia di “vendere o comprare” in una evidente realizzazione dell’inquietante passo profetico di Apocalisse 13,16-18, quello sul marchio luciferino che sarà apposto a tutti i popoli della terra.
Siamo ormai nella post-democrazia, nella post-sovranità, nel post-politico. Vediamo avverarsi la solenne ammonizione di Solgenicyn sul potenziale carattere totalitario, benché soft, dell’Occidente liberale nel quale, come appunto osservò l’esule russo appena fuoriuscito dal gulag sovietico, per tacitare gli oppositori non c’è bisogno di violenza perché basta togliere ad essi il microfono.
E’ senza dubbio innegabile che nell’attuale scenario mondiale agiscano anche realtà politiche in controtendenza con la discesa occidentale verso il nulla. Stiamo parlando della Russia di Putin, dell’Iran e della Cina le quali da un lato, salvo Pechino, innalzano i vessilli delle loro identità sacrale, tradizionale e nazionale e dall’altro gestiscono in modo alternativo la nuova tecnologia digitale dato che non la lasciano alle multinazionali private ma la controllano politicamente. Un controllo politico che è esteso anche all’economia senza per questo negare il mercato. Si tratta di quel “capitalismo di Stato” del quale già parlava Drieu in “Socialismo fascista” e che, su un piano più scientifico, poteva, nella sua epoca, appoggiarsi alle idee di Keynes, il quale, dal canto suo, come lui stesso ha scritto nella sua “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”, si considerava un conservatore il cui intento era di salvare il capitalismo da sé stesso.
La domanda, qui, però, è la seguente: Russia, Iran, Cina, il modello del capitalismo statualmente controllato, sono gli attori del futuro oppure i residui della passata modernità che, in Occidente, è già trapassata nella postmodernità? Solo il tempo ci darà una risposta, indipendentemente dalle simpatie che si possano avere per il modello di una economia autonoma ma sotto controllo e strettamente regolata, anche mediante interventi pubblici se necessario.
Ora, però, al di là del responso che ci attendiamo dal futuro, e che chi vivrà vedrà, va doverosamente riconosciuto, almeno per quanto riguarda l’Occidente, che l’attuale mondo post-statuale, esito terminale della china discendente della secolarizzazione, trova le sue radici proprio nello statalismo totalizzante della modernità perché il massimo della statualizzazione, ossia della pubblicizzazione, della società corrisponde e coincide con il massimo della societarizzazione, ossia della privatizzazione, dello Stato. O, almeno, la pubblicizzazione integrale della società prelude alla privatizzazione integrale dello Stato, come la radice prelude all’albero maturo. Di questo paradosso, solo tuttavia apparente, Giovanni Gentile ed Ugo Spirito, nella loro ricerca della coincidenza tra volontà individuale e volontà statale, tra io e noi, tra io individuale ed io collettivo, non si avvidero. Sembra, invece, essersene avveduto proprio Pierre Drieu La Rochelle quando si accorse che lo stesso socialismo fascista, nella sua aspirazione totalizzante, preludeva, in fondo, alla generale “stanchezza” – oggi parleremmo di “nichilismo” – dell’Occidente.
«Non sono mai stato, certo, – scrisse ancora nel suo libro del 1934 – uno di quelli che si rallegrano della decadenza del capitalismo in Europa, poiché non posso vedervi il segno premonitore di una metamorfosi totale dell’essere europeo, di una rinascita decisiva. Un continente non cambia pelle così facilmente. Troppo del genio stesso dell’Europa si è manifestato nelle forme del crudele e delizioso liberalismo, fiore della belle époque capitalista, perché si possa non temere, nel vederlo appassire, definitivamente, che il male abbia già raggiunto le radici. E in effetti trovo la triste conferma dei miei timori nel fatto che, contemporaneamente al capitalismo, è il socialismo che dà segni di stanchezza attraverso il suo stesso ultimo slancio fascista.» (6).
Drieu scriveva in una epoca, spiritualmente e politicamente, ancora vitale e quella “stanchezza” poteva solo intuirla, poteva sì vederne quasi profeticamente i primissimi albori tuttavia ancora lontani sull’orizzonte della storia. Per noi invece la “stanchezza” è la stessa dimensione quotidiana. Una triste condizione postmoderna dalla quale l’uomo da sé non riuscirà mai ad uscire. L’unica speranza è nell’esserci stato rivelato che il Gigante, il Leviatano – quello postmoderno, perché quello moderno è già morto da un pezzo – ha i piedi di argilla. Non resta che aspettarne l’inevitabile crollo che sarà determinato, probabilmente, dallo stesso suo peso proprio quando esso crederà di aver definitivamente vinto.
NOTE
- Cfr. Pierre Drieu La Rochelle “Socialismo fascista”, Ege, 1973, Roma, pp. 123.
- Cfr, “Socialismo fascista”, op. cit, pp. 121-122.
- Cfr, “Socialismo fascista”, op. cit. p. 172.
- Cfr, “Socialismo fascista”, op. cit., pp. 191-195.
- Cfr, “Socialismo fascista”, op. cit., pp. 196-198.
- Cfr, “Socialismo fascista”, op. cit., pp. 200-201.