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Artefatti. Ritorna Gilles di Drieu La Rochelle, autoritratto fumoso dell’ultimo dandy

by Donato Novellini
10 Gennaio 2018
in Artefatti, Scritti
0

pierre-drieu-la-rochelle-(1893-1945)

“Gli ermellini sono immacolati solo nelle favole”, sostiene a un certo punto Gilles, il disilluso protagonista, tormentato viveur e soldato demodé, dell’opera più ambiziosa di Pierre Drieu La Rochelle. Così somigliante al suo autore, da riuscire nell’impresa di confondere realtà con immaginazione letteraria. Uscito in Francia nel 1939, recentemente ristampato, dopo mezzo secolo d’italico oblio da Giometti & Antonello, il poderoso volume può vantare talune pregevolezze accessorie; come ad esempio il recupero della postfazione firmata dall’autore e la revisione della traduzione – difatti risultava un po’ fané l’originale di Luciano Bianciardi – a cura di Danni Antonello. Ma a uno spirito raffinato come Drieu non sarebbe dispiaciuta certo la forma, l’estetica da rifugiati nel bello, al solito molto elegante come da prassi per la casa editrice maceratese: copertina bianca di carta “vellutata”, pastosa cellulosa e ottima leggibilità, titolo in verde; poi un disegno in rosso nella parte alta, raffigurante la Casa-Francia (della Terza Repubblica) in bilico, pericolante a causa degli “ismi” e dei luoghi comuni che ne costituivano le marce fondamenta. Sul basamento spiccano le parole Paresse – Démagogie – Internationalisme. Il dettaglio grafico è ripreso da un manifesto propagandistico, titolato Révolution Nationale, dei primi anni ’40. Pieno Vichy.

Strutturato in quattro parti, secondo una pratica di sinopia a perdere, il libro conferma tutte le morbose peculiarità dell’autore, contorsioni stilistiche altrove adagiate in puro lirismo ‘900, oppure sparse in utopici trattati politici (fasciocomunismo, per amore di sintesi), ma di fatto sempre incapaci di emanciparsi appieno dall’annotazione diaristica, dall’ammissione disarmante e ingombrante dell’io, da capricci spacciati per voti monastici. Da preludi trasformati in epiloghi e viceversa. Biglietti andata e ritorno dall’inferno paradiso, quindi tedio del pendolare tra mondi immaginari – donne, droghe e buddismi – reticenze e abbandoni dentro altri corpi nudi, distesi e lascivi. Forse noia? La migliore alleata dell’eleganza. Confessioni di una maschera, avrebbe sostenuto il separato alla nascita Mishima. “Vivere vuol dire soprattutto compromettersi”, il ché non significa aderire a un patteggiamento mondano, adattamento ambizioso per logiche d’interesse, ma ben peggio. Vuol dire recare danno alla propria purezza, predisporsi a recitare ruoli corrotti per dispensare i buoni di tale fatica a lettori distratti, dissipare per ostentare uno stile che oggi ha dell’incomprensibile. Drieu è tentato dal mandare tutto in vacca, come fece egregiamente il collega di penna Céline. Ma ne è incapace, qualcosa lo trattiene, pare generosità ma potrebbe essere anche l’egoismo di un orfano (Gilles) o di un ripudiato. In lui e nell’alter ego Gilles, permane quel gigionare sull’asse tra vita e morte, inanità seguente all’azzardo di saltarli via entrambi. Cos’è d’altronde l’esistenza, se paragonata all’amore, alla guerra o a una bella poltrona in velluto blu?

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Fra i tratti peculiari del protagonista, spicca una volubilità talvolta sconcertante, che non è semplice vezzo narcisistico, bensì profonda insoddisfazione, logoramento costantemente rielaborato in monologo interiore, talvolta sarcastico, talaltra apocalittico, in misura minore patetico. Una mancanza assillante reclamante attenzioni, fisicità vana e vizi a corredo, che impone alla narrazione un perverso gioco introspettivo: fuori brama di lussi e voluttà, candore bambino, l’idea di scippare alle femmine i loro preziosi segreti, sciupando sé stessi a puttane; dentro fatuità, tormento, esigenza eroica di slanci ardimentosi, quindi clamorosi passi indietro nei piccoli abbandoni: tutte trascuratezze per desideri d’assoluto. Così la guerra si fa lontana mitologia, cartolina dal fronte, sostituita dal bordello quale surrogato di verità nella città delle pose e dei lumi. Facciamo finta che. A poco serviranno nostalgie ataviche orientali, tutto quel sincretismo esoterico lasciato intendere, gli insistiti rimandi archeologici, memorie doriche di vasi in frantumi; poi la visita al vecchio eremita, una replica amara, quei convulsi andirivieni da Parigi, città musa e padrona. Desiderio e assuefazione s’accapigliano. La propria vita vista da fuori, come letta senza permesso dal diario funebre di un veggente. Epilettico e tuttavia indifferente ingranaggio nella meccanica amorosa, battaglia desiderata ai fini di un sacrificio degno, infine contemplazione innaturale per uno che avrebbe voluto essere eroe.

Gilles è un uomo solo, contraddittorio, incontentabile, auto-traditosi per prassi onanista, perennemente alla ricerca di una visuale più alta, eppure estremamente invischiato con la ravvicinata miseria umana. Ma pur sempre conservando un invidiabile guardaroba. Schizofrenico viavai di donne, matrigne o prede dalle quali farsi lasciare; una vita di eccessi ben dissimulati, quindi delusioni per delicatezza d’animo, una dietro l’altra come cioccolatini avvelenati. C’è questo logorroico autocompiacimento – Gilles è Drieu allo specchio -, enclave di stile per il seduttore perennemente in scacco; il cavaliere costretto a piedi o peggio in tassì, un cittadino – orrore – come tutti i patrioti incompreso, non contraccambiato dal sacro vessillo. Sicché, nell’incessante confessione di amori urgenti, fatali, irrevocabili, eppure irrimediabilmente fasulli, o sinceri proprio in quanto ispirativi per l’inchiostro, l’inquietudine prende le sembianze di un mastodontico disgusto. Nausea antimoderna e antidemocratica, dandismo romantico, dissoluzioni magistrali spinte fino al limite, nei pressi della morte sempre blandita. Infine trovata e baciata, il 15 marzo 1945.

@barbadilloit

Donato Novellini

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Tags: Barbadilloconfessioni di una mascheradandyeditoriagilleslibrilouis ferdinand celinenauseapierre drieu de la rochelleYukio Mishima

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