Ennesima squadra, ennesimo esonero per Zeman. Il boemo, classe ‘47, cecoslovacco adottato dall’Italia, è probabilmente il tecnico più discusso di sempre del calcio nostrano e non solo.
Di lui si è detto di tutto: fanatico, lunatico, ossessivo, testardo.Soprattutto, gli si è additata la qualifica poco lusinghiera dell’eterno sconfitto, del fallito. A causa della sua concezione del gioco del calcio certamente non ordinaria e senza compromessi che non ha quasi mai portato i frutti desiderati.
Se si volesse individuare un concetto, un dogma da accostare a Zeman, questo è innanzitutto il 4-3-3, lo schema per eccellenza del suo calcio prettamente a tutto campo: due esterni offensivi e un centravanti che non danno punti di riferimento. Attaccano tutti, anche i terzini, la difesa è altissima e il portiere è praticamente un libero. È uno spettacolo vedere il calcio di inizio quando la monetina dell’arbitro è caduta a favore della sua squadra: nel cerchio del centrocampo i due attaccanti toccano per la prima volta il pallone, e metà squadra, in perfetta linea retta a metà campo, corre subito spingendosi in avanti. Di solito, in questo primo frangente di gioco, la regia delle tv sceglie una ripresa larga.Il suo calcio, quando riesce a svilupparsi bene, mette in crisi gli avversari, perché lui non ha mai guardato in faccia a nessuno; si gioca per attaccare sempre, sia che si abbia di fronte una squadraccia da oratorio che la Juventus.
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Zeman, però, non ha mai vinto nessun trofeo, e questa sarebbe la ragione della sua definizione di fallito. Ragionando “da buon borghese”, come cantava De Andrè ne “La città vecchia”, non si potrebbe eccepire nulla. Nel mondo in cui viviamo, infatti, conta il risultato, contano la matematica ed il profitto, e se questa accezione valoriale sia discutibile, quanto criticabile, nei confronti dei massimi sistemi del mondo, la critica è più difficile nello sport agonistico dove, moralismi a parte, si gioca per vincere.
Zeman ha appena confermato la sua “fallibilità” nella sua brevissima avventura in terra sarda, con un Cagliari che ha sicuramente deluso le aspettative: non ha mangiato il panettone.
Sessantasettenne, gli anni in cui Zeman allenerà in futuro saranno certamente meno di quelli già passati, e quest’ennesima sconfitta è un’occasione per trarre dei giudizi, cercando sempre di rifuggire da conclusioni definitive o totalizzanti, ma tentando, almeno, di andare oltre la formalità dei moderni schemi della quantità.
Seduti sulla nostra borghese poltrona cittadina, è facile liquidare Zeman: come si è detto, non vince. Il palmarès piange. Su wikipedia si contano una Panchina d’Argento, il premio “Allenatore dei sogni” (!), un primo posto in serie C2 e due in serie B. Tantissime squadre: il grande Foggia, il Parma, la Lazio, due volte la Roma, due volte il Lecce, le recenti Pescara e Cagliari, giusto per citarne alcune. E tanti talenti scoperti: da Francesco Totti a Beppe Signori passando per l’ultima nidiata, Insigne-Immobile-Verratti.
Molto poco, però, per un allenatore sfrontato come lui, ma nonostante tutto emerge una certa difficoltà ad apprendere in maniera tranquilla la notizia di ogni suo esonero.
Chi scrive è un “giovane” venticinquenne, che ai tempi dell’esplosione del Foggia (si parla degli inizi degli anni Novanta) non aveva la coscienza di cosa rappresentasse realmente questo sport, a parte il fatto che si trattasse di dare un calcio ad un pallone per spingerlo in rete o di conoscere grandi nomi di club o di giocatori per sentito dire.
Eppure la figura di Zeman è perennemente accompagnata da una recondita eredità di eroiche imprese,compiute da piccole squadre che hanno dato filo da torcere ai club più prezzolati. Non si tratta di un semplice curriculum, di una mera serie di risultati, sorprendenti e tennistici, da ricordare e raccontare, ma di una vera e propria aurea di mistero.
Per questo motivo non sarebbe fuori luogo accostare a Zeman, oltre al 4-3-3, anche l’elemento della nostalgia. Si tratta di sport, certo, non di filosofia, di vita o di questioni ultime dell’esistenza, ma perché non provare a fare un tentativo? Occorre specificare che per nostalgia non si intende una cosa propriamente negativa, dato che essa è un sentimento dato dall’avvertimento di una mancanza di qualcosa di più grande, di una soddisfazione totale; è nostalgico chi nella vita non si accontenta ed è cosciente che le cose del mondo non possano mai soddisfarlo. Nella vita, la nostalgia potrebbe essere determinata dalla voglia di una soddisfazione totale, assoluta, come il desiderio di felicità, che ha anche dato origine al sentimento religioso degli uomini: Lagerkvist, ne “Uno sconosciuto”, si rivolgeva a un dio ignoto, “Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza? / Che colmi tutta la terra della tua assenza?”, come del resto anche Nietzsche,“Conoscerti voglio, o Ignoto / Tu, che mi penetri nell’anima / E mi percorri come un nembo, / Inafferrabile congiunto!”.
Esiste quindi da sempre, nell’uomo, un senso di insoddisfazione che lo porta a spingersi verso la totalità, e nel piccolo del profano, sporco e reietto calcio, l’“oltre” di Zeman potrebbe rappresentare un po’ tutto questo: il suo sorriso fugace, il suo sguardo profondo, le sue poche ma pesanti parole, il suo modo di fare nell’andare al di làdella contingenza del risultato.
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C’è un bel documentario, realizzato da Giuseppe Sansonna nel 2009, “Zemanlandia”, prevalentemente incentrato sull’esperienza foggiana, che ben descrive questa felice diversità esistenziale del boemo.
Oltre all’eccentricità degli allenamenti, simili più ad un addestramento bellico che ad una preparazione atletica, Zeman si contraddistingue per la profondità estrema di concepire la squadra, che diventa una vera e propria “comunità” (Gigi Di Biagio, nel film, l’ha definita una “famiglia”, cosa non scontata).Comunità, ma niente “idealismi” per poche menti sopraffine, bensì una comunità aristotelica, carnale, concreta, passionale, dove si esalta e cresce la persona, perché valorizzata (si pensi all’esplosione di tanti giovani sotto la sua guida).
Il valore delle cose è già presente, non si costruisce nulla, va semplicemente cercato e riconosciuto: dalle partite a carte fino alle remote trasferte, rigorosamente in pullman, che avvicinano e mettono sullo stesso piano, senza alterare, il rapporto gerarchico allenatore/maestro – giocatore/allievo; si capisce come per Zeman lo sport è prima di tutto educazione e umanità, dove non c’è da perdersi nessun momento di gustosità, neanche una briscola.
Di fronte a questa consapevolezza, anche la lotta di Zeman contro i potentati del football per cui passò alla ribalta (il calcio fuori dalle farmacie, ricordate?), per quanto sacrosanta, passa in secondo piano. Nel documentario appena citato, nel finale il mister dice: “Io sempre mi considero uomo probo, io vorrei tutto bello, tutto carino, tutto giusto, io sono contro quello che è sbagliato, e ce ne sono cose tante sbagliate”.Questa lotta non è per invocare un ribaltamento di potere, una prevaricazione, ma è data semplicemente da un sentimento di giustizia e, soprattutto, di bellezza, per cui lo sport deve continuare vivere. Senza questa consapevolezza la battaglia di Zeman rischia di essere relegata a un mero giustizialismo.
Le partite, i fallimenti della sua gestione, dati da una maniacale ricerca dello spettacolo, lasciano intravedere la sua nostalgia per la Bellezza, contraria ad ogni logica di misura e di contabilità. Si vince o si perde, lui è sempre lì, ieratico e fermo sul suo promontorio, intimamente soddisfatto di aver rispettato la natura delle cose.
Come si è detto prima, se nel calcio contano il risultato ed il punteggio, utili per un buon piazzamento, a maggior ragione va dato merito al boemo di aver concepito la sua missione senza mezzi termini e senza compromessi, di aver osato al di là dell’esito; l’ultima certezza dunque, in questa breve riflessione, è che Zeman oggi sia sicuramente contento di ciò che è e di ciò che è stato.
Pur senza qualche campionato catenacciaro vinto potrà sempre vantarsi, davanti a tutti, di aver preteso l’impossibile.