Questo mercoledì Matteo Renzi presenterà il suo Job Act, o meglio, con molte probabilità presenterà una parte di quell’insieme di proposte con cui il nuovo Governo cercherà di invertire una tendenza negativa che sta facendo diventare il mercato del lavoro italiano il buco nero dell’occupazione europea. È presumibile, stando alle indiscrezioni , che l’intera manovra sarà divisa in due tronconi: in prima battuta dovrebbero arrivare tutte le norme esclusivamente amministrative, attuabili a costo zero e, solo dopo, quelle per cui sarà necessario trovare una copertura finanziaria. Impresa, quest’ultima, apparentemente ancora più ardua che trovare delle intese sui singoli punti con le parti sociali.
PREMESSA
I dati che fotografano la disoccupazione in Italia, più che allarmanti, ricordano la conta delle vittime dopo un cataclisma naturale: da questo gennaio i senza lavoro sono 3milioni 263mila, il 12,9% della popolazione del Paese. Per ritrovare un dato simile si deve tornare indietro nel tempo fino al 1977. Se si prendono poi i numeri che descrivono la disoccupazione giovanile, dei ragazzi di età compresa tra i 15 e i 24 anni, la percentuale arriva al 42,4. Periodo che ha visto l’impennata di questo triste primato è stato quello che va dal secondo trimestre del 2008 al terzo trimestre del 2013. In questa forbice di tempo sono stati persi oltre un milione di posti di lavoro e la disoccupazione giovanile è raddoppiata passando dal 20% al 41%. Ma l’Italia si aggiudica anche un altro primato sulla media europea. Quello che riguarda il numero di NEET (“Not in Education, Employment or Training”, giovani che non lavorano, non studiano e non si formano professionalmente): degli 8 milioni complessivi di questi ragazzi, presenti in Europa, un milione e 230mila, stando ai dati di Eurofound, sarebbero italiani.
Eppure, solo nel 2007, l’Italia in materia di occupazione faceva meglio di quasi tutti gli altri Paesi Ue, con una percentuale di senza lavoro del 5,8, contro l’8,6 di Parigi e l’8,8 di Berlino. Tempi davvero lontani da noi, più percentualmente che cronologicamente, che incoronano l’emergenza lavoro come problema principe da risolvere per cercare di rimettere in moto un paese che dondola sul ciglio del burrone delle tensioni sociali.
JOB ACT. LE MANOVRE CHE HANNO UN COSTO.
Molto probabilmente non verranno presentate mercoledì a causa della difficoltà di garantirne in tempi brevi la copertura finanziaria ma l’assegno universale per chi perde il lavoro (ribattezzato Naspi) e il taglio del cuneo fiscale, nelle intenzioni del Governo dovrebbero essere le leve più potenti per una ripartenza. Discorso a parte, anche se rientra nel novero delle manovre non a costo zero, spetta al progetto “Garanzia per i giovani”, già delineato durante il Governo Letta e finanziato, per la maggior parte, dall’Unione Europea.
Si dovrebbe chiamare Naspi e sarebbe il diretto discendente di Aspi e Mini-Aspi, assegni di disoccupazione già introdotti dal Ministro Fornero durante il Governo Monti. Questo nuovo ammortizzatore sociale dovrebbe spettare a tutti coloro che perdono il lavoro dopo aver maturato almeno tre mesi di impiego e durerebbe in totale due anni. Sei mesi in più, quindi, rispetto alla copertura prevista attualmente dall’Aspi. Altra novità, rispetto al dispositivo previsto dalla Fornero, sarà quella di andare a tutelare anche i lavoratori atipici con contratti precari. Il costo ipotizzato per il tutto si aggira intorno ai 9,5miliardi di euro: 7,1 già spesi con l’Aspi e 2,4 spesi per cassa e mobilità in deroga, che andrebbero a sparire prima di quanto non fosse già previsto dalla riforma Fornero. Se davvero, come è stato spesso sostenuto, la volontà è quella di ispirarsi a modelli di welfare nord europei, la creazione di un ammortizzatore sociale universale dovrebbe andare a diventare un punto essenziale per garantire un passaggio fluido tra un lavoro e un altro. Piccolo problema: in Italia, al momento, mancano egualmente sia “il lavoro”, che “l’altro” e la famosa flexicurity danese pare un modello difficilmente raggiungibile.
La seconda azione che avrebbe il suo costo nasce già portando con se un bivio decisionale notevole. Il Governo, infatti, deve scegliere tra il taglio dell’Irap o quello dell’Irpef. La prima, imposta regionale sulle aziende, se tagliata andrebbe presumibilmente a incentivare gli imprenditori che vogliono investire e assumere. La seconda, imposta che grava sulle buste paga dei lavoratori, garantirebbe di dare respiro a chi lavora e, di conseguenza, potrebbe far ripartire i consumi. Unica cosa certa in questo dilemma da “nasce prima l’uovo o la gallina” è l’intenzione del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan di concentrare il taglio esclusivamente su una delle due imposte, per evitare l’effetto avvenuto fino ad ora, di tagli tanto generalizzati e pulviscolari da non portare nessun giovamento.
L’occupazione giovanile merita un capitolo a parte. Per far fronte ai dati allarmanti della disoccupazione degli under 24, Padoan e Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, vorrebbero attingere a piene mani dal già lettiano piano di attuazione italiano “Garanzia per i giovani”. Questo progetto europeo mette in campo 1miliardo e 513milioni di euro (567 provenienti dalla Commissione Europea, 567 dall’Fse e 379 di co-finanziamento nazionale) per creare un’autostrada che colleghi giovani e mondo del lavoro. Come? Con un mix di corsi di formazione, stage, incentivi all’assunzione. Intorno al “Garanzia per i giovani”, però, negli ultimi giorni si erano venuti a creare numerosi malintesi corroborati anche da diverse testate giornalistiche. Diverse voci, infatti, annoveravano questi fondi Ue come ipotetici crediti spendibili anche per gli ammortizzatori sociali previsti nel Job Act, cosa per cui, in realtà, non è prevista una possibile destinazione. Per fugare l’equivoco è stato necessario un intervento della Commissione stessa che ha ribadito i vincoli che limitano l’impiego di questo piccolo tesoretto.
Strettamente legato al piano europeo ci sono altre due ventilate innovazioni che potrebbero comparire all’interno della riforma del lavoro: l’obbligo di rendicontazione dei soldi ottenuti dai centri di formazione per preparare i ragazzi che decideranno di entrarvi (controllo che nasce già con il forte limite di avvenire soltanto dopo che la maggior parte dei soldi saranno già assegnati agli enti di formazione) e la creazione di una Agenzia Unica Federale che vada a coordinare tutti i centri per l’impiego, pubblici e privati, già presenti sul territorio. Proprio il potenziamento di questi centri è visto in prospettiva del gran numero di giovani che dovrebbero essere coinvolti dal “Garanzia per i giovani”. Ma il nodo vero che sottende ancora a tutti questi dispositivi innovativi rimane uno: dove trovare i soldi per attuarli?
(fine prima parte)
@fedecallas