Anacleto Verrecchia è stato, senza dubbio alcuno, pensatore autentico. Nato nel 1926 a Vallerotonda in Ciociaria, si formò a Torino dove chiuse i suoi giorni nel 2012. Germanista di vaglia, traduttore, scrittore di qualità e, soprattutto, filosofo volontariamente postosi oltre gli ismi che hanno trionfato, in filosofia e nella vita, nel corso del secolo XX: fu essenzialmente un solitario, animato nei confronti del mondo di quella curiositas che, nell’età classica, veniva considerata tratto eminente dell’uomo dabbene. Verrecchia scrisse per importanti quotidiani italiani e tedeschi e fu addetto culturale a Vienna, presso l’Istituto Italiano di Cultura. È nelle librerie, per i tipi di El Doctor Sax edizioni, una silloge di suoi scritti significativamente intitolata, Meglio un demonio che un cretino. Aforismi e pensieri (p. 160, euro 13,00, acquistabile su Amazon). Il testo è curato da Dario Stanca, autore di una pregevole prefazione, che consente al lettore di entrare nelle vive cose del pensiero verrecchiano. Ci auguriamo che questa pubblicazione possa risvegliare l’interesse nei confronti del filosofo, da sempre trascurato tanto dall’Accademia quanto dalla “grande stampa”.
Gli “autori” di Verrecchia sono essenzialmente due: Schopenhauer e Lichtenberg. Nonostante ciò, dai suoi scritti si evince una vicinanza assai significativa alle tesi di Giordano Bruno e una consonanza spirituale con scrittori classici, tra tutti l’Ovidio dell’esilio a Tomi. Tra i contemporanei ebbe la fortuna di essere amico del “conservatore scettico” Giuseppe Prezzolini e del Premio Nobel per l’etologia Konrad Lorenz: «Sua prima grande maestra è (fu) la montagna» (p. 13), ricorda Stanca. Tra il 1950 e il 1953, Verrecchia fu guardiaparco nella riserva naturale del Gran Paradiso. L’osservazione attenta degli animali e della natura in generale, convinsero il pensatore che l’uomo sociale è eminentemente maschera, una finzione costruita ad hoc. Già in tale fase, lo scrittore alla ridondanza stilistica di molta saggistica filosofica, contrappone la brevità dell’aforisma. Lo stile aforistico di Verrecchia, in più di una circostanza, come avrà modo di constatare il lettore, manifesta un qualità dell’uomo, la sua ironia innata che, sovente, lo induce all’autoironia. L’aforisma registra, come nelle corde della tradizione dei moralisti francesi, in particolare di Montaigne: «la contraddittorietà dell’esistere, le luci e le ombre di tutto ciò che ha sotto gli occhi» (p. 17). Nonostante la sua distanza dalla cultura dominate del tempo in cui ebbe in sorte di vivere, a differenza di Nietzsche, Verrecchia: «si butta nel mondo a capofitto, gli uomini li conosce fin troppo bene» (p. 17).
I suoi aforismi sono, per questo, lampi che infrangono i falsi dogmi del senso comune moderno: l’idea di progresso, l’esaltazione della storia, il primato della prassi. Verrecchia guarda all’uomo quale espressione della “nuda vita”, oltre le sovrastrutture con le quali si è cercato di coprirne la natura tragica e, per certi tratti, miserevole. Tale natura è irriformabile: «L’illusione paligenetica dell’uomo è perfettamente contro natura: l’uomo non si migliora, non si riforma» (p. 18). Affermazione apodittica testimoniante l’abisso che separa la prospettiva del filosofo ciociaro da quelle dei “grandi” nomi della filosofia moderna, a muovere da Hegel che, in quanto filosofo della storia, è considerato dal Nostro, un consapevole mentitore. Ciò che è davvero irrinunciabile, a dire di Verrecchia, è l’insegnamento cruciale di Lichtenberg che ricondusse l’ottimismo del proprio tempo, in faccia al misterium vitae, tracciando in tal modo, assieme al “pessimista” Schopenhauer, un itinerario teorico-pratico, atto a riscoprire la saggezza. Abbiamo, in particolare, apprezzato nel testo che presentiamo, l’auto-sufficienza teoretica di Verrecchia. Questi è autore che pensa da sé, libero da scuole e debiti intellettuali contratti con altri, del tutto svincolato dai “circoli” intellettuali contemporanei.
La sua ricerca è fondata sullo sforzo costante di trascendere la realtà presente, il giudizio comune della modernità sulla vita e sull’uomo. Tale precorso lo intraprende da “non specialista”: «L’autodidatta sarà il “dilettante” che ricerca e studia per “il proprio diletto”, mentre per lo specialista la cultura resterà soltanto un mezzo finalizzato a qualche utile» (p. 24). Alieno alle sirene accademiche, il filosofo nutrì il medesimo rifiuto della politica, a suo dire appartenete a una sfera inferiore dello spirito. Questa convinzione lo spinse a rifiutare con forza l’idea sartriana dell’intellettuale impegnato o organico a un progetto politico. Probabilmente, il tema teorico verrecchiano che maggiormente ci intriga, è da rilevarsi nella sua prossimità alla visione “panteista” e “politeista” del mondo. Egli fu, da sempre, sostenitore di un radicale anticlericalismo: «Le religioni, soprattutto quelle di stampo monoteista, sono considerate […] alla stregua di una “forma di pazzia”» (p. 26). Qualora si avvertisse la necessità di un dio: «non cercatelo nel cuore dell’uomo, ma piuttosto nel canto degli uccelli, nel silenzio del bosco, negli occhi di un camoscio o nello scrosciare di un fiume» (p. 27). Ad essere sacra, è la natura, nonostante essa manifesti il tratto tragico della vita, dolente: «Questo mondo non è che un macello universale a cielo aperto e sempre in funzione» (p. 28). L’uomo è il più crudele tra gli esseri viventi: solo lo Stato può momentaneamente sedare la nostra sete di sangue. Per questo, il filosofo invita gli dei a fulminare, tra tutti gli esseri gli uomini, e a preservare l’innocenza degli animali, appesi alla “vita nuda”.
Un lettore non aduso a tale caustico sarcasmo, potrebbe chiudere le pagine di, Meglio un demonio di un cretino. Non lo faccia! In fondo, dagli aforismi di Verrecchia si esce rafforzati, corazzati nei confronti degli inciampi della vita. La sua lettura è euforizzante, insegna cioè a “ben sopportare” la tragicità della nostra ex-sistenza. Non è qualità da poco…
Ci sono uomini pero’ che sentono Dio ne cuore e non e’ poca cosa. Meglio di niente
Personaggio per nulla amato. Si fece un nome scrivendo scemenze su Nietzsche….
Se invece del parco del gran paradiso fosse andato nell’Africa centrale avrebbe avuto le stesse convinzioni? Ne dubito! Per carità lasciamo Nietzsche fuori da piccinerie..
Non risulta abbia scritto scemenze Fu un naturalista assai amato ed esperto
‘La catastrofe di Nietzsche a Torino’, non a caso pubblicata da Einaudi nel 1978, divenne lo stolto manifesto di tutti gli antinietzschiani… Dove la gran colpa del filosofo sassone, lui sì filosofo, era quella di mangiare cioccolato, apprezzare i gelati torinesi e poi, gravissima, quella di stare 12 anni in manicomio prima di morire…
E naturalmente La Stampa, già orientata a sinistra, pubblicò allora estesi articoli di Verrecchia contro Nietzsche, ridicolizzandolo perchè malato… Un’operazione a dir poco sciocca e vigliacca…
Il capostipite unti Nietzsche,ovvero, ne dava un’analisi personale fondamentalmente forviante come lo era tutta la linea comunista degli anni settanta.Il personaggio era Gianni Vattino.In quel periodo argomentare sul grande filosofo tedesco, si poteva essere aggrediti considerati nazisti e fascisti.A Torino in quel periodo la violenza rossa spadroneggiava specialmente nei paraggi del cinema teatro Massimo..
Ferna. Verissimo. Lo ricordo bene. Io andavo a Palazzo Nuovo quasi ogni giorno, come assistente di Luigi Firpo. Un clima infame. Le BR avevano assassinato nell’aprile 1977 l’avvocato Croce ed a novembre Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa, col quale avevo pendente un colloquio per (forse) entrare come giornalista alla Stampa. A marzo 1978, prima che mi arrivasse il telegramma di convocazione al MAE, a Roma, rapirono Aldo Moro. Una grande scritta comparve sulla parete del Liceo Gioberti: ‘Marocco delatore’. Non ero io, non conoscevo quell’omonimo, ma non è che una sprangata in testa stesse per errore per arrivarmi? Ed i Vattimo e soci erano tra i colpevoli di quella degenerazione. Il clima di Roma mi parve poi straordinariamente accogliente. Potevo conversare senza timore con gli allievi di De Felice, con Del Noce ecc.
Ma i Moro, i De Mita ecc. solo credevano nel terrorismo nero, non in quello rosso… Moro la pagò in carne propria, ma a Torino (non so altrove) molti iniziarono a respirare… Le BR rapendo ed uccidendo Moro aprirono gli occhi a molti, con anni di colpevole ritardo da parte dello Stato, che solo ascoltava i gaglioffi del PCI…
Il Liceo Gioberti era ubicato proprio di fronte alla scalinata di accesso a Palazzo Nuovo (per chi non conosce Torino). Quindi il sottoscritto, già in odore di eresia per il pensiero unico allora dominante (marxista-leninista), condivideva purtroppo il cognome con lo sconosciuto accusato di ‘delazione’… E tutti coloro che uscivano da Palazzo Nuovo lo potettero leggere fino a quando, settimane dopo, fu celato da una mano di vernice… Forse l’intelligence rossa non era malaccio e nessuno per mia fortuna pensò ad una sbrigativa vendetta. Non come dopo il 25 aprile 1945, quando un comandante della GNR (credo il colonnello Cabras) fu ucciso 3 volte a Torino, ma sempre si trattò di persone sbagliate….
..Dicono 4 o 5 poveracci, neppure molto somiglianti, senonchè Giovanni Cabras ebbe l’accortezza di arrendersi agli alleati. Condannato ad una pena detentiva e poi amnistiato, credo nel 1947, morì ottantenne nella sua Sardegna nel 1981…
Il PCI ha fatto presa a Torino con la violenza provocazioni subdule.Sono stato testimone come all’improvviso iniziavano gli scioperi a Mirafiori,provocando fisicamente chi non vi aderiva,sedendosi nelle macchine sulla catena.Mi ricordo quando organizzarono in piazza S.Carlo per il discorso di George Marchais and Berlinguer,folla oceanica e tumultuosa ove Donat Catten era in visibilio.
Credo che da quell’evento la DC si liquefo definitivamente.Solo col rapimento Lee Dozier gli USA intervennero sotto traccia facendo poi credere del merito delle forze integerrime Italiche..
Si si proprio quelle.
Torino è ancora in mano loro e non la molleranno.
Fu il prezzo che pagò l’avvocato Gianni Agnelli, fregandosene della comunità: voi non toccate né me né la mia famiglia, in fabbrica fate ciò che vi pare. Se non importa al governo, non faccio io in fabbrica da garante dei diritti di tutti..
Negli anni 70 a Torino c’era il terrore, in molte famiglie, del terrorismo e violenza rossa e dei sequestri. Non era il mio caso, ma parecchi conoscenti mandarono i figli all’estero… Lo Stato, nelle mani dei Donat-Cattin e del sinistrume da sacrestia non muoveva un dito…
E, naturalmente, la Fiat andò a puttane…. Non si riprese con la marcia dei 40 mila e Ghidella. Agnelli ormai aveva perso ogni fiducia nei govermi italiani, che pur lo foraggiavano e diversificò sempre più i suoi investimenti…
sarebbe una ottima idea se non ci fossero i pipstrelli del WOKE, CANCEL CULTURE, CHAPgbt et cetera…. personaggio zoppicante il torinese VERRECCHIA ma ebbe un guizzo un lampo un sturm und drang di GENIO ASSOLUTO, quello di demascherare il luetico crauto, il cruiser dei cessi torinesi, lo scorfano teutonico: PER QUESTO PRECISO MPTIVO IL CATTO-ADELPHISMO GLI MISE LA MUSERUOLA e lo silenziò…