E’ bene cominciare dalla fine. Quasi cinque minuti di applausi e pubblico in piedi per Fedra (Ippolito portatore di corona) di Euripide con la regia di Paul Curran. La gioia del pubblico ha ripagato la traduzione scenica di un testo voluttuoso e violento, cui il regista ha messo la sua impronta senza invaderlo. La tragedia di Euripide ha una storia di riscritture (fu preceduta da Ippolito velato probabilmente del 482 a.C.) e fu rappresentata in occasione della ottantasettesima Olimpiade. Narra la storia dell’amore incestuoso e luttuoso di Fedra per il figliastro Ippolito. Una storia terribile, fatta di passioni e inganni, di vendette e di pietà. Amore e morte come segno del tragico, del conflitto inconciliabile fondamento, per Goethe, della tragicità. Euripide risolve la colpa dell’amore in malattia e infine in ineluttabilità della morte. Per lei, impiccata a una corda, e per Ippolito, dilaniato dalla furia della promessa di Poseidone al padre Teseo: “condividendo con me la mia sventura imparerà l’umiltà“. Superbo, dunque, appare Ippolito all’invasata Fedra. E non si accorge dell’unico legame che stringe lei e il figliastro: la solitudine. Sola Fedra con la sua passione, solo Ippolito votato alla Natura. L’una preda della vendetta di Afrodite, l’altro vittima della vendetta della femmina e della dea. Entrambi per Euripide colpevoli di essere mutili della loro umanità. Fedra è amputata dell’amore in quanto polo erotico, a Ippolito manca l’esperienza della fisicità. Rivendica fino alla fine la verginità di fronte a Teseo, che Euripide riscatta dal mito proiettandolo nella dimensione più squisitamente umana: accettare l’errore, confrontarsi con se stesso. La tragedia euripidea eleva lo scontro dialettico a epica dei sentimenti, la messinscena di Curran estrae dall’epica il tratto apparentemente marginale, la polisemia e la reticenza, e su di esso costruisce il senso della tragedia. Non è solo l’immagine del coreuta che clicca sul cellulare, idolo contemporaneo della ritrazione della parola: è soprattutto la nicchia di incomprensione in cui si chiudono i personaggi. Tanto vestita d’inganni è la parola di Euripide, tanto nuda è quella dell’opera di Curran.
Paul Curran è fedele alla propria idea di teatro: raccontare storie a teatro perché voci, scenografie, musica e costumi sono per lui strumenti artistici irrinunciabili. Gary McCann, che per Curran ha firmato le scene e i costumi di gran parte delle sue opere, qui crea un contrasto tra il minimalismo grigio della scenografia e il cromatismo dei costumi. La scenografia ricorda, non si comprende quanto volutamente, la geometria di quella per Aiace: in fondo le due tragedie si parlano a più livelli.
McCann ha immaginato un cantiere al cui centro campeggia una testa sezionata, su cui effetti digitali di video mapping (Nicolas Bovey e Leandro Summo) proietteranno le varie fasi dell’azione e dei destini di Fedra e Ippolito fino a farsi teschio che consente agli attori di spostarsi occupando tutto lo spazio scenico dal basso con le pedane all’alto grazie a scale e passerelle. Giustifica anche i costumi del coro: tute catarifrangenti, elmetti e torce, unica fragilità della messinscena in quanto la significanza tra costruzione dell’io (la testa cantiere) e gli operai non è immediata né intuitiva, mancando la legge prima del teatro ossia la visibilità del non detto. Di contro l’imprevisto effetto cromatico viene compensato dai costumi del coro delle donne di Trezene (pepli bianchi e viola) e dei compagni di Ippolito (una comunità hippy sbrilluccicante e coloratissima), dei personaggi i cui costumi tranne quello nero della nutrice cui fa da controcanto il blu dell’abito vagamente samurai di Teseo, sono caratterizzati dalla sontuosità. Ora degli strass nell’abito maschile di Ippolito, ora dal tessuto fluo giallo acido di Fedra, ora dal classicissimo porpora dell’abito e dell’elmo di Artemide. Costumi parlanti che culminano nello splendido abito di Afrodite, la cui carica erotica viene esaltata dal mix di oro e tulle avorio e dalla sensualità dell’attrice Ilaria Genatiempo.
Gli attori. Curran si è avvalso di un cast eccezionale. La messinscena funziona come un meccanismo perfetto, una sorta di puzzle in 3D perfettamente ricostruito e deve agli attori tutti la sua carica emotiva. Innanzitutto i due protagonisti. Riccardo Livermore è stato un magnifico Ippolito, capace di tradurre l’ingenuità autocompiaciuta del personaggio euripideo in una pura idealità.
Un ribelle animato da un’idea di mondo cui concede tutto se stesso perché Ippolito è un pius estremo. Livermore lo rende con la freschezza di un’interpretazione sicura, limpida, capace però di trasformare la voce del trauma del mondo, che colpisce il personaggio, nel pathos, evviva!, non declamatorio della seconda parte. Qui lo scontro con il padre Teseo, in cui irrompe il ‘900 freudiano (Teseo vuole uccidere il figlio, Ippolito bacia Teseo), dà a Livermore lo spazio di mostrare il mestiere. Teseo è Alessandro Albertin, tornato a Siracusa dopo Prometeo incatenato della scorsa stagione, con un’interpretazione forte nella rabbia e intensa nella scena finale.
Fedra è un personaggio complesso: costretta dalla dea Afrodite alla passione incestuosa per Ippolito, in qualche modo se ne fa complice, stretta com’è tra il desiderio sessuale (perché l’amore è questo, altrimenti avrebbe un altro nome) e la remora. “Ircocervo di libertà e costrizione” per parafrasare le parole di Guido Paduano. Alessandra Salamida supera la prova nel rendere l’equilibrio tra lo sconquasso dell’eros e la tragicità del destino.
Tiene testa alla superba interpretazione di Gaia Aprea, la Nutrice. Possiede tutti i registri, la sua voce potente e chiara risuona assecondando la naturale acustica della cavea e giocando con la prosodia delle battute. Aprea ha il ruolo più difficile: la nutrice è il motore del dramma.
Protegge e scaraventa nell’abisso, ama Fedra la sua “bambina” e la tradisce, a tratti le movenze e l’espressione del viso fanno sospettare che Aprea abbia fatto la sua ermeneutica del personaggio facendola virare verso la subdola trappola dell’inconscio: l’amore che vuole per Fedra è quello che lei vorrebbe provare? Curran, d’altronde, ha disseminato l’opera di erotismo e sensualità. Non teme lo scandalo: fa mettere le mani della nutrice sul sesso di Fedra come se la prima fosse l’Eva modello letterario del femminile, denuda il petto di Ippolito per farne oggetto reticente e tanto più attraente, mette i tacchi a tutte le donne e soprattutto crea un’Afrodite che recupera la voluptas di Lucrezio. Bellissima l’interpretazione di Ilaria Genatiempo. Afrodite come l’hanno voluta i Greci: sfrontata, provocante, sexy, eccitante, terribile “Chi venera il mio potere, io lo rispetto, ma chi mi tratta con arroganza, io lo distruggo”.
L’altra dea è Artemide, che compare alla fine dell’opera, conferendo almeno sul piano divino la circolarità dell’azione e a cui Giovanna Di Rauso dona il furore della sua presenza scenica. Ottimi Sergio Mancinelli, il servo, e Marcello Gravina, il messaggero. Infine il coro diretto magistralmente da Francesca Della Monica. Elemento non determinante nel testo, il coro emerge grazie alle individualità delle attrici: le corifee Simonetta Cartia, Maria Grazia Solano, Giada Lorusso, Elena Polic Greco insieme a Valentina Corrao, Giulia Valentini, Maddalena Serratore, Aurora Miriam Scala, Alba Sofia Vella. E sottolinea con i movimenti delle mani l’idea di base di Curran per la sua Fedra (Ippolito portatore di corona).
La traduzione e la drammaturgia. Rimane deluso chi avrebbe voluto imbastire sul monologo misogino di Ippolito una diatriba sulla questione di genere. Per fortuna, sia il regista che il traduttore Nicola Crocetti hanno lasciato al contesto la questione femminile ed evitato il femminismo. Le parole forti di Ippolito “O Zeus, perché hai messo al mondo le donne, un male pieno d’inganni?…Va meglio all’uomo che ha sposato una nullità…non ci sia in casa mia una donna più intelligente del dovuto” riecheggiano nella cava con il sapore del loro tempo e si prendono quell’universalità che spetta alla filologia, all’ermeneutica del tempo. La tragedia di Euripide è la rappresentazione ferina e ferale della voluttà, della purezza erotica sia nella declinazione del desiderio sia in quella della negazione. La scelta di compendiare il titolo originario Hippólytos stephanophóros (Ippolito coronato) con il nome di Fedra non sposta l’attenzione sul nodo tematico del dramma, la ribellione incosciente a un dio, anzi lo amplifica nella precisa fenomenologia dell’intreccio causale conseguente ossia punizione e “vittima collaterale” come il drammaturgo Francesco Morosi ha definito Fedra. Di più, puntando su Fedra la drammaturgia svela la gravità cieca dell’errore umano: Ippolito disprezzando Afrodite rovina se stesso e porta con sé la rovina della matrigna. Ma pure Fedra si macchia d’errore, facendo di sé l’eroina di un frainteso τιμή: l’onore inviolabile grazie alla falsa accusa di stupro contro il figliastro Ippolito si innesta alla vendetta per l’amore negatole dal giovane. Un guazzabuglio di sentimenti voluti sì dalla dea ma incarnati poi nell’umanità di una giovane donna erosa dalla passione, come la fece poi Seneca. Fedra ha attraversato secoli di scrittura e di riscrittura, ma qui resta incontaminata nella visione euripidea ossia priva del moralismo drammatico socratico e senechiano. La sua è una lucida scelta di morte e di affermazione di sé. La lettera – Crocetti nella sua scelta realistica ha mantenuto la lezione di lekòs come lettera e non tavoletta- è lo strumento della vendetta, è il finalmente dire dentro una tragedia dell’ineffabile. Come per Aiace, in questa tragedia la follia viene dal dio e il non detto si accampa come motore dell’azione, condannando lo stesso Ippolito legato al giuramento agli dei di non svelare il ruolo della nutrice nell’inganno. La traduzione di Nicola Crocetti è contemporanea ed è in prosa. Un omaggio alla verità della parola per una tragedia che racconta l’adulterio della parola. Non mancano gli squarci lirici, in particolare nel delirio di Fedra e nelle punte di allusività “Quanto vorrei bere acqua pura da una fronte fresca…” e non manca il ritmo proprio del verso recuperato nella recitazione. Alla traduzione si sono ispirate le musiche non originali di Mattew Barres (suoni pop e jazz, qualche citazione di acid music per il coro dei compagni di Ippolito, una sora di Baccanti figli dei fiori) e i coinvolgenti canti musicati da Ernani Maletta.
Fedra (Ippolito portatore di corona) di Paul Curran è una messinscena bella. Soffre qua e là di rimandi e citazioni, ma tutto si compensa e si salda nella metonimia tra vitalismo e colpa. L’immagine finale (foto di redazione) è un tableau vivant dalla Pietà di Michelangelo: Teseo tiene in braccio il figlio morto. Sulla scena cala il buio, sul teatro splende la luce di uno spettacolo che commuove.
Foto di Maria Pia Ballarino