Voglio fare un paragone azzardato, anche se del tutto personale: Michel Houellebecq per la spietata analisi della decadenza europea e del declino morale e psichiatrico dei suoi cittadini, Lawrence Osborne per la capacità di descrivere lo spaesamento e l’inanità dell’uomo occidentale di fronte al resto del mondo in ebollizione. Sono questi, a mio avviso, i migliori scrittori contemporanei del Vecchio Continente. Quando ti appresti a leggere un loro romanzo, sai già che dopo nulla sarà più come prima.
Accade anche con “Java Road”, pubblicato in Italia da Adelphi alcuni mesi fa, che pure non è il libro migliore di Osborne. Eppure anche questo breve romanzo – 209 pagine, alla faccia dei tomi da un migliaio di pagine che vanno di moda negli ultimi anni – lascia il segno e aggiunge un nuovo tassello al mosaico di personaggi indimenticabili usciti dalla penna dello scrittore britannico. In questo caso Adrian Gyle, giornalista inglese cinquantenne, oscuro e imbolsito, che vive da anni a Hong Kong e segue con una certa simpatia, ma senza particolare trasporto, le rivolte anticinesi degli studenti nel 2019-2020. Tutto cambia quando scompare una militante ventenne, già amante del suo amico miliardario Jimmy Tang, episodio che spinge il giornalista ad avviare un’indagine personale in una città pronta ad arrendersi alla dittatura morbida di Pechino.
Le opere di Osborne traboccano di questi tipi umani alla Adrian Gyle, “expat” di mezz’età privi di radici e ideali che tirano a campare tra la vita comoda nei Paesi tropicali e il disorientamento dell’uomo occidentale di fronte a fenomeni culturali, politici, storici e di costume che non capiscono. Memorabili i personaggi spocchiosi e ottusi di “Nella polvere”, romanzo del 2012 ambientato in Marocco dal quale, nel 2021, è stato tratto il film “The Forgiven” di John Michael McDonagh, interessante ma purtroppo non all’altezza del romanzo. Oppure la giovane e ignorante americana protagonista di “Il regno di vetro”, fuggita a Bangkok con il bottino di una truffa perpetrata negli Usa che non sa capire né adattarsi a una Thailandia complicata, che sorride agli occidentali ma sotto sotto tira a fregarli.
Sessantacinque anni, giornalista, viaggiatore e critico gastronomico, Osborne è uno degli ultimi esponenti della celebre letteratura esotica britannica, che nel secolo scorso ha avuto in Somerset Maugham e Graham Greene le sue firme più celebri e spietate. Loro intingevano la penna nel sangue dell’impero britannico in dissoluzione; mentre Osborne, spenglerianamente, non ha timore di affrontare il declino dell’Occidente mettendo il dito nelle piaghe della way of life anglo-americana (ma per estensione parla anche di tutti noi europei) che di superiore non ha più nulla, neppure il livello di vita materiale, figuriamoci i valori. «Ma in ogni caso, genuflettersi non era un fenomeno soltanto cinese», fa dire al protagonista, uomo senza qualità moderatamente progressista. «Chi non si metteva in ginocchio, nell’Occidente? Facendo qualche storia e un po’ di chiasso in più, ci si inginocchiava al capitalismo in cambio della salute, della sicurezza, di una vita lunga. Anzi, milioni di persone sognavano di annegare nella ricchezza in ginocchio. Era la loro Utopia!».
L’uomo bianco beneducato, istruito, progressista e democratico, sembra voler dire Osborne, non può più dare lezioni di vita a nessuno. Soprattutto perché al di fuori della “comfort zone” occidentale non capisce il mondo che lo circonda, non è in grado di interpretare gli aneliti vitalistici degli altri popoli che non sono passati attraverso la rivoluzione industriale, la democrazia parlamentare, la tolleranza, il pluralismo. E che oggi si fanno beffe della cultura “woke” e del nostro pensiero debole. Ma il pregio di Osborne consiste nel non cadere nella facile retorica del “buon selvaggio”, nel terzomondismo acritico e ottuso. Anzi, “gli altri” non sono migliori di noi, solo diversi. E non è un caso che nei suoi romanzi spesso gli ingenui, i buonisti e i fautori dell’accoglienza ad oltranza facciano una brutta fine, calpestati da coloro che vorrebbero salvare.
“Java Road” è anche un romanzo che analizza senza pietà la crisi del giornalismo contemporaneo e demolisce la retorica della grande stampa anglosassone, in particolare il mito degli inviati all’estero. Un piccolo mondo che Osborne conosce bene, avendolo frequentato per decenni. «Avevo assistito da lontano allo strano deterioramento dei media americani, al loro traviamento», spiega sempre il protagonista. «Avevo notato che i giornalisti televisivi in particolare non trasmettevano più nulla di onesto. Ma i giornalisti della carta stampata erano sulla stessa china, piazzati sotto i tavoli dei potenti di Washington a ciucciare le briciole, “indiscrezioni” gettate in pasto dalle agenzie dell’intelligence che in realtà dirigevano la baracca. Così lucravano sul loro prodotto. Avevo perso il conto della quantità di spie in pensione sedute alle scrivanie di CNN, MSNBC, NBC, da dove facevano le veci dei giornalisti, impostando i termini del discorso finché i due gruppi diventavano curiosamente indistinguibili».
Costeggiando la zona grigia al confine tra realtà e illusione, tra disincanto e assenza di valori, tra un Occidente sempre più rannicchiato sulle proprie piccole certezze e un “altrove” nel quale, magari con il sangue, ancora si produce Storia; Lawrence Osborne è in realtà un autore molto più politico di quanto voglia apparire.
Lawrence Osborne, Java Road, Adelphi, 209 pagine, 2023