Trent’anni fa, sui circuiti delle tv private e locali, andava in onda in Italia la prima puntata di una saga che avrebbe marchiato a fuoco l’immaginario collettivo di un’intera generazione: i Cavalieri dello Zodiaco.
Se ciò è accaduto è stato grazie a una genialata tutta italiana: al doppiaggio – peste colga chi s’ostina a negargli la dignità artistica che merita! – decisero di caratterizzare quella serie giapponese sulle avventure di un gruppo di ragazzini accomunati dal destino di servire Lady Isabel e diventare suoi paladini, con un eloquio forbitissimo e dal sapore medievale. Pur sempre di cavalieri si trattava. Certo, era una scommessa presentare ai bambini degli anni ’90, che crescevano a cheeseburger e Hulk Hogan, dei ragazzini che parlavano come il Lancillotto di Chretien de Troyes. Eppure fu vinta, alla faccia di chi – oggi ancora – s’ostina a livellare tutto verso il basso perché “tutti devono poter capire”.
I monologhi, sottratti alla banalità che ci si attenderebbe da un cartone per bambini, rappresentarono – e rappresentano oggi ancora – uno degli elementi distintivi di maggiore forza della saga di Pegasus, Cristal, Sirio il Dragone, Andromeda, Phoenix, lady Isabel e compagnia. La sospensione dell’incredulità funziona proprio grazie agli artifici retorici scelti in sede di doppiaggio. Provate ad ascoltare quanto urla il Dragone, alla casa del Cancro: il cavaliere d’oro gli ha appena ucciso l’amatissima Fiore di Luna, lui esanime è rianimato, dalla rabbia dell’amore offeso e, ancora di più, dalla forza di chi s’oppone alla malvagità della prepotenza, cieca e ottusa, che fa del male per il gusto di imporsi agli altri. E’ un piccolo capolavoro.
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Quella sorta di parlar cortese creò un universo e rese “autentiche” le prove e le avventure di quei ragazzini che si ritrovarono a passare le pene dell’inferno, ad affrontare autentici mostri, a patire tradimenti e a sbattere la testa, a soffrire e a rischiare, più e più volte, di lasciarci le penne, insieme all’armatura. Per un destino, quello di cavalieri, che non si sono nemmeno scelti ma che perseguono a tutti i costi. Rischiarono, per la morale “occidentale” utilitaristica, di morire per nulla: svelarono a quei bambini la grandezza e l’ineffabile bellezza dell’etica del dono, alla massima potenza.
Il miracolo di quella serie fu quello di coinvolgere, fin da subito, i ragazzi a immedesimarsi in quegli eroi e, talora, in quella visione del mondo presieduta da Lady Isabel, pretesa reincarnazione della dea Atena, che rappresentò il miracolo della bellezza angelicata nell’universo di quei cavalieri. Più che Atena, guerriera e fonte del diritto, era una formidabile Afrodite con tanto di cintura: bellissima, sensuale, fragile. La sua immagine, fissa e immobile, divina nella sofferenza e terribile nella potenza: pare quasi un’icona bizantina, maestosa e stupenda theotokos.
Quel manga, in fondo, causò un piccolo cortocircuito culturale. Riportò in vita tutto quello che Miguel de Cervantes aveva spazzato via con il Don Chisciotte: non più Amadigi di Gaula o di Grecia innamorato di Oriana, ma l’inesorabile Tisifone che rincorre, odiandolo per amore, Pegasus; non più l’insensibile e devoto Galahad ma il freddo e determinato Crystal. Tradizioni, linee culturali e di pensiero lontanissime e l’una estranea all’altra, dal Giappone alle rive del Mediterraneo. Suggestioni, in fondo, niente di più. Specialmente se si considera che certe scelte dei doppiatori furono giustificate dalla necessità di edulcorare i toni ritenuti violenti della serie originale e che il cartone stesso arrivò in Italia grazie a chi pensava di montarci su un bel po’ di merchandising (come poi, effettivamente, accadde).
Però certe cose non stanno a badare troppo alle intenzioni degli uomini. E l’archetipo del cavaliere che si dona alla Signora, quello sì universale, fu risvegliato nell’epoca del massimo edonismo occidentale. Grazie all’idea balzana, a quella scommessa folle dei doppiatori, di far parlare dei ragazzini come degli adulti sapientissimi e cortesi.