Arriva su Netflix la mini serie “La storia di Jeffrey Dahmer”, per la regia di Ryan Murphy, nome già noto per American Horror Story e l’assassinio di Gianni Versace. La trama stavolta, non tratta né di fenomeni paranormali né vite di adolescenti o di mondi sottosopra ma della messa in scena della vita atroce e cruenta del Mostro di Milwaukee (nello Stato del Wisconsin), interpretato dal talentuoso Evan Peters, già noto al pubblico per diversi ruoli drammatici.
La serie inizia nel bel mezzo della fine: luglio 1991, Jeffrey Dahmer, Jef per i fan più sfegatati, viene arrestato nel suo appartamento dopo che gli agenti, entrando nel covo del giovane assassino per una presunta molestia sessuale nei confronti di un ragazzo di colore, si trovano davanti uno scenario raccapricciante che mai avrebbero immaginato. Fotografie di cadaveri, parti di corpi sciolte in barili di acido e la sconcertante scoperta di carne umana in pentole ed in piatti, segno inequivocabile, come confermerà lo stesso assassino, del gusto per la cannibalizzazione. Dal momento dell’arresto, la narrazione torna indietro e con l’utilizzo di flashback, cerca di ricostruire la storia del protagonista e l’intreccio con le sue 17 giovani vittime.
Tralasciando i tragici avvenimenti successi, rappresentati alla perfezione dal regista, (ricostruzione assolutamente fedele ad esempio dell’abitazione e del processo) si nota chiaramente la voglia e il dovere di raccontare il contesto sociale dove Dahmer si era stabilito gli ultimi anni. Pare che la scelta di vivere nel quartiere popolare degli Oxford Apartments non sia stata casuale: l’assassino riusciva ad adescare facilmente le sue vittime (la maggior parte di etnia afroamericana o asiatica) offrendo loro denaro e approfittando della indifferenza totale che dominava quel periodo verso le persone straniere. Lo sa bene la sua vicina di casa del tempo, Glenda Cleveland (interpretata dalla fenomenale Niecy Nash) che, a causa di odori e rumori agghiaccianti provenienti dall’appartamento di Dahmer, ha cercato invano di contattare la polizia senza mai essere veramente ascoltata.
I vertiginosi numeri di ascolto della serie hanno causato non poche polemiche: le famiglie delle vittime hanno espresso tramite social media tutte le loro criticità, accusando Netflix di non aver chiesto i permessi necessari per trattare le loro storie e di aver fatto rivivere loro quell’orrore a distanza di anni, mettendo sul piedistallo l’assassino dei propri cari. Ha colpito particolarmente un tweet di Eric Perry, cugino di Errol Lindsey, il diciannovenne ucciso da Dahmer nell’aprile 1991 dopo torture terrificanti: “Non sarò io a dire cosa le persone devono guardare, so che il genere true crime va forte, ma se siete interessati davvero alle vittime, sappiate che la mia famiglia è molto contrariata”, per poi aggiungere: “Vuol dire rivangare il trauma ancora e ancora, e a che pro? Di quanti film/serie/documentari abbiamo bisogno?”
Il ragazzo ha c’entrato il punto: siamo affascinati dal male oggi più che mai. Si spiegherebbe l’enorme clamore che ha creato la serie sui social media e non solo: costumi di halloween ispirati al protagonista (Ebay ha dovuto bloccare il tutto), Tik Tok invaso da challenge, una tra le quali consiste nel riprendersi mentre si reagisce alla vista delle famose polaroid dei corpi delle vittime (non chiaro dove siano state ripescate). Insomma una fascino del male abbastanza inquientante e la colpa, più di chi la serie l’ha creata, sembra essere di quelli che vivono in un mondo virtuale talmente intorpidito da non rendersi conto di fantasticare/elogiare un killer che ha tolto delle vite e terrorizzato un’intera città.