Professor Nistri, è stato uno dei pochi a ricordare a Firenze la precoce scomparsa di Fernando Corona, che aveva cercato di ridare vita al marchio Vallecchi, salvandolo dal fallimento…
“…Sì, ma lo devo a voi, e in particolare a Pietrangelo Buttafuoco, che ne ha pubblicato un breve ricordo su codesto sito. A Firenze nessuno si era ricordato di lui, nonostante che ci vivesse e che avesse fatto tanto per la cultura cittadina. Comunque, per una strana e un po’ inquietante coincidenza, nel rileggere una pagina del mio diario del lontano 2001 mi era caduto l’occhio proprio pochi giorni prima sulle impressioni di un mio colloquio con lui, credo l’ultimo o uno degli ultimi”.
Che cosa vi eravate detti, se non sono indiscreto?
“Non ricordo che cosa dissi a lui, ma ho annotato quello che lui disse a me di un suo ex collaboratore, che l’aveva lasciato nelle pesti quando l’azienda era entrata in crisi. Ovviamente non posso riferirlo, perché rischierei come minimo una querela. Mi limito a dire quello che ho anche scritto, che in Italia è più facile fare i soldi vendendo fumo che libri. Posso citare invece quello che Nando mi disse in occasione del nostro primo incontro. Eravamo ai tavolini delle Giubbe Rosse; proprio frequentando quel caffè letterario, oggi chiuso a tempo indeterminato, Nando aveva saputo dal gestore di allora, il mitico Fiorenzo Smalzi, che era in vendita il marchio Vallecchi. L’affare si era da poco concluso”.
E cosa le disse?
“Ricordo perfettamente le sue parole: “Avrei potuto comprare il marchio della Vallecchi a un prezzo più basso, ma non ho voluto. So che qualcuno mi ha criticato, ma che importa? Rilevare la casa editrice che inventò il Novecento era stato il mio sogno fin da ragazzo, e i sogni non hanno prezzo.”
In queste parole c’era tutto Fernando, persona che imparai a conoscere e ad amare. Appartenevamo alla stessa generazione e avevamo condiviso in gioventù le stesse scelte politiche, ma non ci eravamo mai incontrati. Era invece molto amico di Umberto Croppi, che nel frattempo però era passato ai Verdi e alla Rete di Leoluca Orlando e proprio a lui affidò la direzione editoriale della casa editrice”.
Perché anche la nuova Vallecchi dovette chiudere?
“Fernando aveva fatto i soldi come agente generale della Treccani, al tempo in cui ancora le enciclopedie si vendevano, e bene, mentre oggi si trovano abbandonate sul marciapiedi perché nelle case non c’è posto e tanto “c’è wiki”. Pensa che io ho adottato l’intera Enciclopedia Britannica trovata in un cassonetto a pochi passi da casa mia, in perfette condizioni e nelle buste arancioni di un supermercato. Mi sono sentito un po’ come il pastore che salva Romolo e Remo abbandonati… Ma scusa la divagazione. Fernando non badava a spese e nella sua generosità di provinciale entusiasta non aveva capito lo spirito della cittadina “pettegola e carina” cantata da Spadaro in “La porti un bacione a Firenze”, sempre più pettegola e sempre meno carina, per la verità. Pensa che, oltre alla sede editoriale, aprì in pieno centro in via Panicale un grande locale al pian terreno che serviva come spazio per presentazioni di libri, spettacoli, aperitivi. E sai perché scelse proprio quella via, che stava diventando degradata?”.
No, prosegua….
“Perché proprio lì si trovava la prima tipografia di Attilio Vallecchi, quella che stampò Lacerba e i chimismi lirici di Ardengo Soffici. E infatti il locale fu battezzato Bzf, o Bizzeffe, in onore di quell’opera. In realtà Soffici nella sua autobiografia parla di Vallecchi come un “tipografiuzzo di via Nazionale”, ma via Panicale è il retro di via Nazionale e quindi non è impossibile che l’azienda avesse un doppio ingresso”.
Tutto questo è molto bello.
“Sì, ma Fernando non aveva capito il carattere della città. Firenze non è Milano, e non è neppure Roma o Bologna. Il fiorentino tipo, quando si reca a una presentazione, è abituato ad approfittare del buffet e poi cerca di farsi regalare il libro, nel migliore dei casi”.
E nel peggiore?
“Cerca di fregarlo. A me, dopo che avevo presentato gli Scritti sull’arte di Soffici alle Giubbe Rosse, mi rubarono la copia che mi aveva appena dedicato la curatrice, Simonetta Bartolini. Tra l’altro, la cassiera mi indicò anche la donna che l’aveva presa, una vecchia befana che veniva alle presentazioni solo per il buffet, ma non potevo certo perquisirla. E poi, la colpa era mia: se avessi parlato meno bene del libro, non le sarebbe venuta voglia di fregarlo… In questa situazione, Bizzeffe non prosperò, anche per il progressivo degrado della zona, divenuta un suk di negozi etnici. Io vi organizzai presentazioni e dibattiti, e devo dire che fu un’esperienza molto bella. Ma dal punto di vista commerciale…”.
E la casa editrice vera e propria?
“Più che un editore, Fernando è stato un vero mecenate. Il guaio è che a Firenze, la città del pappo e del dindi, chi persegue un obiettivo diverso dal guadagno viene visto come un “bischero”. Non a caso il tono della vita cittadina è dato dai venditori di panini, dagli ambulanti che vendono le magliette con gli attributi del David ingranditi, dai signori della movida, da chi ha comprato appartamenti signorili per farne B&B…”.
…ora la crisi del turismo legata al Coronavirus li sta castigando…
“…Sì, e dopo essere stati liberisti quando c’era da fare i prezzi convertendo le mille lire in un euro scoprono lo statalismo e pretendono di farsi risarcire dall’erario il mancato guadagno”.
Ma torniamo a Corona. Quale fu la sua politica editoriale?
“Molto lungimirante, forse troppo eclettica, anche per l’influenza di Croppi. Lui che aveva acquisito la casa editrice con un magazzino quasi inesistente non si limitò a rinnovare il catalogo e a ripubblicare molti classici, comprese le famose Scatole d’amore in conserva di Marinetti, ma volle fare della Vallecchi un punto di riferimento per la città. Pubblicò anche libri più effimeri, nati per inseguire l’attualità. Alcuni ebbero successo, come i Fascisti immaginari di Lanna e Rossi, altri decisamente meno. Devo dire però che alcuni dei titoli usciti, a parte le riedizioni anastatiche, basterebbero a giustificare una vita, dai due fondamentali volumi del Dizionario del Futurismo al saggio L’invenzione del Novecento, storia di Enrico Vallecchi e delle prime riviste d’avanguardia, a cura di Giampiero Mughini”.
Però dovette chiudere.
“Purtroppo è vero, e senza aver potuto realizzare il suo sogno, che voleva affidare a me: la ristampa anastatica dell’Universale, la rivista di Berto Ricci che lasciò il segno nella cultura italiana degli anni ‘30, come tu sai molto bene”.
Eppure Corona, da ex agente Treccani, sapeva vendere.
“Sì, ma soprattutto grandi opere; in più con l’avvento di Internet l’editoria stava entrando in una fase di crisi. Nell’insieme, ho l’impressione che in una città come Firenze, abituata a non fare il passo più lungo della gamba, la nuova Vallecchi abbia sbagliato a non rimanere in una dimensione artigianale.
Ricevette aiuti di natura politica?
“Io, che allora contavo qualcosa, feci il possibile, ovvero poco. Nonostante il trasversalismo di Croppi, non mi risulta che la sinistra al governo in Toscana l’abbia aiutato. Solo Gasparri, che è un galantuomo, quando era ministro delle Comunicazioni regalò (allora si poteva) molte copie della ristampa della Scatole d’amore in conserva di Marinetti, e per questo fu criticato. Eppure aveva avuto, nel 1994, uno “scazzo” televisivo con Croppi, che dal Msi era passato alla rete…”.
La morte di Corona lascia un po’ di malinconia.
“Molta, direi, non solo perché aveva appena un anno più di me… E oltre alla malinconia un po’ di rimorso. Avevo perso i contatti con lui, non sapevo nemmeno che vivesse a Firenze. E poi, mi sento colpevole per un altro motivo…”.
Quale?
“Vede, come ben sa per il giornalista come per l’oratore il grande problema è trovare un buon incipit, oltre che un finale a effetto. Nel corpo di un articolo si può anche sonnecchiare. E io per la Vallecchi l’avevo trovato nel 1981, quando scrissi per “Prospettive Libri” un articolo sul primo tentativo di rilanciare la casa editrice dopo la chiusura. Recitava più o meno così: “Quando Firenze era la capitale italiana della cultura, c’era una casa editrice che era la capitale della cultura di Firenze””.
Ovviamente, la Vallecchi.
“Certo, comunque quel primo tentativo fallì. Era ovvio, era un tentativo grottesco. C’era un comitato di direzione pletorico, c’era anche Edoardo De Filippo, tanti ufficiali e nessun soldato, e soprattutto pochi soldi. Poi però, a metà anni Novanta, qualcuno rilevò il marchio. E io scrissi un altro articolo, ma con lo stesso incipit. Anche la nuova Vallecchi fallì, dopo avere pubblicato, devo dire, molti buoni libri”.
Poi venne Corona…
“…e io scrissi un altro articolo, con lo stesso attacco. Non vorrei che quell’incipit abbia portato male anche a lui”.
che rivolse a chi scrive, seduto a un tavolino delle Giubbe Rosse, alla fine del secolo scorso, c’è tutto Fernando Corona, il libraio, editore, mecenate, scomparso il 16 ottobre scorso, a 68 anni. Teramano di nascita, era fiorentino d’adozione, e come tanti non fiorentini amava la città del Giglio più dei suoi abitanti. I soldi che aveva fatto da agente Treccani li investì tutti in quella azzardosa avventura editoriale. L’azzardo consisteva nel fatto che tutti i precedenti tentativi di ridare vita a quel marchio editoriale – quello del 1981, con un pletorico comitato di direzione che comprendeva persino Edoardo De Filippo, e quello di metà anni ’90, che pure portò alla pubblicazione di alcuni buoni titoli – erano naufragati miseramente. Corona s’imbarcò in una coraggiosa iniziativa editoriale, coadiuvato da Umberto Croppi, versatile intellettuale che aveva conosciuto negli anni ’70, al tempo della Nuova Destra, e che poi era passato ai Verdi e alla Rete. I conti comunque non tornarono, anche in seguito a un incendio nel magazzino, e Corona fu costretto a chiudere l’azienda in cui aveva riposto tante speranze. In Italia, del resto, è più facile arricchirsi vendendo fumo che libri. Il rammarico che gli rimase fu di non aver portato a termine l’operazione editoriale che da tempo ambiva: Oggi le Giubbe Rosse sono chiuse a tempo indeterminato, la Vallecchi non c’è più e anche Armando Corona se n’è andato. E con lui il sogno, generoso quanto velleitario, di non far svanire il ricordo della casa editrice che era stata la capitale fiorentina della cultura, quando Firenze era ancora la capitale della cultura italiana.
Enrico Nistri