Charlie Chaplin diceva che il requisito fondamentale per un grande attore è che si piaccia quando recita. Michele Riondino deve piacersi per forza nei panni di Caterino Lamanna, il protagonista di Palazzina Laf. E deve per forza piacersi anche da regista, perché il suo esordio è a dir poco eccellente. Palazzina Laf è un film sapiente prima di tutto dal punto di vista estetico. La predilezione per i campi lunghi e medi, il colore ferroso, l’attenzione per i primi piani e i dettagli traducono l’asfissia degli uomini e la sventura del luogo insieme alle musiche di Teho Teardo (“il linguaggio del film” dice Riondino) e al trucco di Eva Nestori che fa di Caterino e di Giancarlo Basile (Elio Germano) due maschere quasi archetipiche.
Palazzina Laf ricostruisce la storia del primo processo per mobbing in Italia nel 1997 ed è dedicato ad Alessandro Leogrande che di Taranto tradita e ammalata ha raccontato in Fumo nella città. Taranto, per Leogrande, aveva bisogno di ricucire le ferite, il film di Riondino le riapre. Bene così, se ancora la vicenda dell’ILVA non è conclusa e se ad aprire le ferite è Michele Riondino. Se oggi ha ancora un senso la formula di intellettuale engagè, Michele Riondino è la prova. Non solo perché sin dall’inizio della sua carriera cinematografica ha lavorato con i più significativi registi del cinema italiano – si ricordino Daniele Vicari, Matteo Rovere, Matteo Garrone, i Taviani, Bellocchio, Grimaldi- ma per la scelta di considerare il lavoro dell’attore un impegno civico, una testimonianza civile, un mestiere al servizio della cultura, della bellezza, della società. Nell’analisi della possibilità oggi di un cinema impegnato, il film di Riondino assume orgogliosamente su di sé l’onere del disturbo e della memoria.
Caterino Lamanna potrebbe essere l’erede di Mimì Metallurgico, del ragionier Fantozzi e andando più indietro di Charlot davanti alla catena di montaggio. Anche in ragione di un’estetica anche della citazione: da Pietro Germi a Salce, dalle atmosfere del Salvatores di Educazione siberiana a tutto il cinema proletario. Citazione mai invadente, anzi commovente come nella scena dei quattro operai che avanzano desolati e claudicanti, i Fantastici 4 della Marvel ma sbaragliati dal nemico; disarmante quando la Palazzina del Laminatoio a Freddo (LAF) assomiglia troppo a un campo di concentramento, a un manicomio, a una pagina di Orwell.
Michele Riondino racconta non la storia dello stabilimento ILVA ma la storia di un’umanità degradata e degradante, nella quale la parola resilienza ha confini ben limitati tanto da non sortire il doveroso romanzo di formazione. Caterino resta lì, imbambolato dall’ignoranza e dalla disperazione, in quella condizione di sub-umanità cui il diritto al lavoro, trasformato in concessione o ricatto, penetra nei gangli della coscienza come la polvere rossa nei polmoni delle 11550 vittime della fabbrica di Taranto. Caterino è un poveraccio di tasca e di animo, non è cattivo è solo un povero non bello, il parto bastardo di una terra che ha la dignità dei settantanove lavoratori puniti dai Riva, i proprietari dell’Ilva, perché denunciavano, perché avevano capito. Palazzina Laf non è, però, l’epopea della classe operaia (pochissime le scene dentro la fabbrica) ma del suo confino nel Purgatorio dei diritti e quella di Riondino è visione impietosa, antiteroica, disarmante. Eppure c’è la dignità delle parole della lettera diretta al vescovo di Taranto e dettata dal più disperato degli esiliati nella palazzina. E c’è l’ironia “grimaldello per scardinare i luoghi comuni” come si legge nella motivazione del premio alla sceneggiatura assegnato da Ortigia Film Fest OFF, scritta dallo stesso Riondino e da Maurizio Braucci. L’ultimo di una serie di riconoscimenti. Palazzina Laf ha collezionato finora tre David di Donatello come miglior attore protagonista, miglior attore non protagonista a Elio Germano e migliore canzone originale a Diodato (ci andava anche quello per il regista esordiente ma l’ipoteca quest’anno era incancellabile) e cinque Nastri d’Argento anche al nuovo esordio e alla sceneggiatura. Cosa vuol dire per il cinema italiano un tale successo con un film non facile, è negli occhi sorridenti e sicuri di Massimo Riondino.
Confesso di essere contenta mille per i David e gli altri premi a Palazzina Laf. Lei quanto è felice per un esordio da regista così brillante per consenso di pubblico e critica?
“Molto felice. La cosa stava in una dimensione per così dire onirica. In parole semplici: me lo sognavo la notte di conquistare qualche David con il mio film. Con la premiazione di Elio Germano e di Diodato già ero soddisfatto. Certo non mi aspettavo il premio per attore protagonista ed è stato bellissimo”.
Caterino Lamanna arriva tra gli altri dopo due suoi ruoli che lo hanno caratterizzato. Mi riferisco al Montalbano giovane di Andrea Camilleri e a Vincenzo Florio dal romanzo di Stefania Auci. Credo che Caterino sia il personaggio che le appartenga di più. Cosa ha significato dal punto di vista attoriale diventare Caterino?
“E’ stata un’operazione molto particolare perché il lavoro di regia mi ha costretto a rimandare costantemente quello che faccio sui miei personaggi. Questa è la ragione per cui non volevo interpretarlo e volevo che il ruolo andasse a Elio Germano. Però, è altrettanto vero che Caterino è un uomo che io conosco fin troppo bene, con il quale sono cresciuto e ho passato i miei primi diciotto anni, conosciuto anche nella cerchia delle mie amicizie e dei miei familiari. Taranto è piena di Caterino ed è stato naturale che lo interpretassi io. Devo dire che è stato catartico: il modo migliore per potermi staccare definitivamente da quello che secondo me è parte del problema. Cioè i cittadini di Taranto che ragionano come Caterino sono parte del problema e andrebbero rieducati”.
Si inserisce qui il Comitato dei cittadini liberi e pensanti o il Primo Maggio di Taranto?
“Noi organizziamo questi eventi per mostrare la nostra città sotto altri riflettori, perché altrimenti saremmo abituati a parlare e leggere di Taranto solo in termini industriali. Non ci sostituiamo a niente: siamo un motore della cultura e dell’arte, che sono un volano economico”.
La cultura può essere un ostacolo al perpetuarsi dello scempio di un territorio e della soluzione economica a problematiche umane? Al premio David di Donatello ha ringraziato, pronunciando anche parole di valore politico quando ha detto che il cinema è una fabbrica e quindi una risposta a un certo degrado del territorio di Taranto e non solo.
“Il cinema è un’industria e va considerata come tale. Se accettiamo questa idea, possiamo anche essere disposti ad accettare che si possa guadagnare col cinema, che il cinema possa dare da lavorare e da mangiare. Certo, l’industria del cinema non può sostituire quella dell’acciaio, ma potrebbe rappresentare una delle tante alternative”.
La sua autobiografia “Rubare la vita agli altri” ha un incipit scandito dalla parola odio, ripetuta per ben tre volte nello spazio di tre righe ed è una dichiarazione di impegno e di lotta. Palazzina Laf nasce da questo impegno e concede pochissimo al simbolo, se non qualche suggestione estetica. Il neorealismo è vivo e lotta insieme a noi?
“Della definizione di neorealismo forse si abusa un po’ troppo. Io ho voluto fare un film per restituire la complessità del problema tarantino. Se molti si aspettavano da me un film legato a temi contemporanei come l’ambiente, la salute, la malattia, si sono sbagliati. Io sono partito dalle origini, dalla prima forma di inquinamento che abbiamo subito ossia il ricatto occupazionale, che ha compromesso la nostra dignità di uomini e di lavoratori. La storia dei confinati della Palazzina Laf è una storia emblematica di ciò che siamo diventati e a cosa siamo costretti, oggi. Ogni volta che la parola lavoro è usata come arma di ricatto o come premio o punizione, ogni volta che c’è un abuso, lì c’è una Palazzina Laf”.
A proposito di parole. Sempre nello stesso libro scrive che non ci sta come attore a essere considerato uno specialista delle parole e “Ripeti un milione di volte la parola attore. Poi guardala bene. E vedi cosa è rimasto”. Cosa è rimasto?
“La frase nasce da un gioco fatto da piccolo. Mi è capitato più volte che una parola perda di significato, se ripetuta in maniera ossessiva. La parola ha bisogno di un contesto, deve diventare scheletro e supporto per un concetto. In Accademia (d’Arte Drammatica di Roma, ndr) eravamo abituati a considerare lo spettacolo come un tupperware, un involucro di parole che alla chiusura del sipario si perdono. Il riferimento che mi viene facile rispetto a Taranto è che alcune parole sono state veramente usate come tupperware: per esempio, ambientalismo o decarbonizzazione. Termini con i quali puoi vincere un’elezione ma non conquistare la credibilità”.
Abbiamo altre parole per sostituirle?
“Io non voglio sostituire le parole. Vorrei vedere l’impegno di chi è abituato a pronunciare parole. Sarei soddisfatto se si dicessero meno parole e si facessero più fatti”.
Se non ci fosse stata la questione Ilva, lei non sarebbe tornato a Taranto? Un Ulisse senza Itaca?
“Sono sempre tornato nella mia città e con molto amore e determinazione. Quando nel 2012 è scoppiato il caso Taranto mi è sembrato di avere ragione di tutte le posizioni antagoniste che avevo assunto da ragazzino. Semplicemente sono tornato alle origini”.