Gianfranco Peroncini, Sinistra sul caviale del tramonto, Passaggio al Bosco, Firenze, 2023.
Qual è l’obiettivo di Sinistra sul caviale del tramonto?
È una modesta proposta per uscire dalle paludi della politica italiana contemporanea. Attraverso un salto di paradigma, culturale prima che politico. Nel segno di un passaggio dal riflesso (di rabbia e d’intolleranza) a quello della riflessione. Acuta, coerente, persino feroce. Nel concreto, bisogna ricostruire una patria. Senza maiuscole, senza retorica, senza indulgenze. Con la consapevolezza precisa, chiara, netta, a volte lancinante (e di cui molti non si sono ancora accorti) che una ventina di anni fa non abbiamo cambiato semplicemente un secolo. Abbiamo cambiato millennio.
Perché questa necessità?
Le pseudo-élite che ci governano avanzano a tentoni, senza un filo d’Arianna che sgomitoli oltre la navigazione di cabotaggio. Dopo la caduta del Muro di Berlino avevano predetto la fine della Storia. Distrutto il fascismo, logorato il comunismo, sarebbe rimasta solo la società di mercato occidentale, isola di pace in cui nulla più accadrà. La fine della Storia, appunto. Poi, come nelle vignette di Guareschi, “contrordine compagni”… Oggi abbiamo sotto gli occhi, da Gaza all’Ucraina, l’urgenza artificialmente creata dello scontro di civiltà. È una fase critica strutturale, non congiunturale. Sotto certi aspetti definitiva, che presenta – grande astuzia… – il neoliberismo (fase 4.0 del liberismo eterno alla Umberto Eco) non come ideologia, bensì come dato di fatto naturale e incontrovertibile. Ma questo non è vero.
In che senso, come direbbe Verdone…
Dalla Rivoluzione industriale, le ricorrenti crisi seriali del capitalismo sono sempre state risolte dall’intervento dello Stato. Un dato inevitabile, visto che il liberismo – ontologicamente e istituzionalmente sfrenato – mette in moto meccanismi di radicale squilibrio che alla fine lo autodistruggono. È la lezione del darwinismo sociale che precede l’evoluzionismo di specie: prende in conto la società britannica del suo tempo, la trasferisce nell’ambito biologico e la considera una legge di natura. Anche se, in realtà, l’homo oeconomicus è un’invenzione, una forzatura.
Questa è un’eresia…
Pensiamoci bene. Dalla notte dei tempi l’essere umano, sino a quando non rinnega se stesso, non ragiona mai in termini esclusivamente economici. La dimostrazione è congenita alla stessa eresia autoavverante liberista: per vendere un prodotto ci si appoggia su punti di leva emozionali, d’immagine, di sicurezza, di rapporti e status sociali. Ezra Pound ricordava che il tempio è sacro perché non è in vendita. E che il sacro non abbia un prezzo, per l’ideologia liberista, è intollerabile. Oggi tutto deve essere liquido, inconsistente, malleabile, fungibile. La narrazione dello scontro di civiltà diventa dunque scontro tra società di libero mercato e altre che vogliono (vorrebbero…) proporre valori alternativi.
Quale soluzione propone?
In questo scenario epocale, complesso, articolato e sfuggente, appare necessario assumersi il compito, per quello che può competere a ciascuno, di interpretare il ruolo di guastatori, di operatori di forze speciali culturali e politiche, cioè strategicamente e non solo tatticamente impegnati a distruggere e a far saltare in aria steccati, ghetti, lazzaretti, dighe e categorie di pensiero legate a quel millennio che ci siamo lasciati, inesorabilmente, alle spalle. Per regolare definitivamente i conti con la destra e con la sinistra, alla luce di quanto diceva Giano Accame, secondo il quale l’Italia, ma anche tutta la società contemporanea, per rinascere ha bisogno di una destra sociale e di una sinistra nazionale.
Ben detto, ma come fare?
Per invertire l’onda di marea che tutto inghiotte e seppellisce, bisogna ricostruire lo Stato dalle fondamenta. Ricordando che costruire uno Stato non significa esercitarne gli attributi di potere, bensì fornirgli una forza interiore, in assenza della quale le istituzioni, tutte le istituzioni, appaiono solo gusci svuotati di conchiglie. Senza cioè dimenticare che andare al governo non è sinonimo di governare… Costruire uno Stato, in estrema sintesi, significa creare, nutrire e sviluppare uno spirito pubblico, vale a dire la subordinazione volontaria e condivisa di ciascuno all’interesse generale, condizione certamente non sufficiente ma assolutamente necessaria per fondare solidamente l’autorità dei governanti, la giustizia nei tribunali, la coscienza dei funzionari. Nel quadro di quella rinnovata e meta-economica funzione sociale da attribuire a proprietà e ricchezza, sottolineata e codificata dalla millenaria dottrina sociale della Chiesa.
Ma come procedere nel concreto?
Seguendo la chiave proposta da Giorgio Galli di un superamento di posizioni politiche ormai insostenibili nella direzione di un comune e assertivo anticapitalismo di rottura. Valeva dire la necessaria convergenza tra l’anticapitalismo “di sinistra” e l’anticapitalismo “di destra”. Un’urgenza non più procrastinabile che impone di non bamboleggiare più con schemi e logiche rottamate dalla realtà. Deregulation e globalizzazione sono la radice prima della sventata e ossessiva finanziarizzazione dell’economia occidentale che ha imposto la Cina come principale fabbrica del mondo, grazie ai vantaggi competitivi dell’ircocervo strutturale cinese, a mezza strada tra il più sfrenato capitalismo privato sul fronte delle rendite e della più rigorosa dittatura comunista sul fronte dei diritti sindacali. Il tutto a scapito dei lavoratori locali, come di quelli europei e statunitensi.
Nel libro viene ricordata a questo proposito la proposta, subito rientrata peraltro, di Stefano Fassina.
La crisi della globalizzazione ha aperto nuovi scenari e una finestra d’opportunità che non si può trascurare. Fassina, allora membro del Parlamento italiano nelle file del Pd, nonché ex viceministro dell’Economia con il ministro Fabrizio Saccomanni nel governo di Enrico Letta, lanciò un clamoroso appello pubblicato il 27 luglio 2015 sul blog di Yanis Varoufakis, intitolato For an alliance of national liberation fronts. Clamoroso appello altrettanto clamorosamente silenziato dall’inquietante e vischioso controllo mediatico politically correct. Fassina sottolineava che alle grandi coalizioni guidate dai conservatori e dai dirigenti cosiddetti “socialisti” doveva essere opposta una discontinuità per invertire la tendenza alla svalutazione del lavoro. Attraverso la costruzione di un’ampia alleanza di fronti di liberazione nazionale, a partire dalla periferia mediterranea della zona euro, composta da forze progressiste aperte alla cooperazione dei partiti sovranisti dello schieramento opposto. A patto che si capisca che in questo tipo di “fronti” possono coesistere ampie zone di disaccordo che devono però – temporaneamente – essere messe in secondo piano in vista dell’obiettivo comune. Dopo avere lanciato il cuore oltre l’ostacolo – tuttavia… – Fassina aveva cancellato nel suo blog il passaggio incriminato sull’alleanza con il fronte della “destra” sovranista anti-euro. Ma restava comunque traccia della necessità d’impedire che logiche e steccati del millennio scorso arrivino à insulter l’avenir.
Utopia…?
Ernesto Galli della Loggia in tempi non sospetti, al tempo della grande crisi del 2008, descriveva uno scenario di grandi mutamenti che il terremoto economico in corso preannunciava in tutto l’Occidente e anche oltre. Sia negli Usa che in Europa, spiegava, la crisi sembra funzionare da acceleratrice di fenomeni in incubazione da tempo che nel nuovo clima si solidificano e vengono finalmente alla luce. Il primo di questi fenomeni è la riattualizzazione, lo straordinario rilancio, della duplice categoria Stato-sovranità in rapporto a una sorta di rinazionalizzazione dell’economia. Un’analisi lucida che trascinava conseguenze di logica cartesiana, dal momento che quando si arriva alle strette sono solo gli Stati che possiedono le risorse economiche, la massa delle risorse finanziarie, in grado di cercare di rimettere le cose in sesto. E possiedono anche i mezzi d’imperio necessari e la legittimazione a usarli. Due risorse di cui nessun mercato e nessuna organizzazione internazionale potrà mai disporre in misura analoga.
È questa la ricetta per uscire dalla crisi dell’Italia?
Il drammatico declino italiano è una diagnosi difficilmente contestabile, direttamente proporzionale al tradimento delle pseudo-élite che hanno governato negli ultimi decenni, nemiche del bene pubblico, indifferenti al futuro delle prossime generazioni, accreditate a livello internazionale solo nella misura in cui tradivano lucidamente, compulsivamente e ossessivamente gli interessi della comunità popolare nazionale. Ma come diceva Winston Leonard Spencer Churchill, un etilista di grande successo, le crisi peggiori sono quelle sprecate… Chi considera impellente la necessità di una revisione del modello capitalistico, una battaglia comunque di lunga durata (compatibilmente alle scadenze cosmiche di questo ciclo di umanità…) dovrà fare i conti, segnalati in tempi non sospetti da Giulio “Belzebù” Andreotti che una volta segnalò la mancanza nel vocabolario italiano di alcuni termini. Al sin troppo abusato “equidistanza” andrebbe infatti anche segnalato il lemma “equivicinanza”… In questo caso non si tratta di spericolato funambolismo dialettico di destabilizzanti logiche di potere democristiano. È una realtà oggi ineludibile. Nel quadro di un’urgenza emergenziale che non lascia scampo agli indecisi.
Esatto, Fassina e D’Attorre sono due personaggi che rientrano nel novero della sinistra nazionale.
Condivido la visione. Le forze che si impegnano a galleggiare al centro, finiscono inevitabilmente per farsi strumento di un sistema che si auto-cannibalizza.
L’ostacolo alla cooperazione di quelle forze che sono intrinsecamente ostili al liberismo degenerato (a modello cinese, come osservato) è l’atteggiamento di “superiorità morale” che la sinistra ha acquisito al seguito degli angloamericani. Fino a che tutti non saranno disposti a vedere l’altro come legittimo portatore di ideali e a riconoscere i crimini propri oltre quelli altrui, ciò non potrà realizzarsi. Finché qualcuno sarà condannato per un saluto romano e un altro libero di gridare:”10, 100, 1000 Acca Larenzia!” o chiamare le Foibe “revisionismo” e per questo ricevere finanziamenti di stato, non vedo come questa battaglia iniziare.
E aggiungo: se a una manifestazione non politica, dove le bandire rosse si imbucano non invitate, si infilassero anche quelle di gruppi identitari, quale dei due gruppi inizierebbe a strillare provocando la gazzarra? Ecco, quelli non sono pronti alla battaglia comune… preferiscono piuttosto restare all’ombra della sinistra al caviale