Si alza il sipario. Nelle torbide strade di Cinecittà va in scena quel crimine macabro e morboso che si perpetua ogni anno, ogni mese, ogni giorno: quello delle serie tv italiane.
Veniamo catapultati proprio lì, dritti sulla scena del delitto: accompagniamo un giovane stagista, ancora di belle speranze e pieno di pie illusioni, nel suo primo giorno di lavoro e scopriamo ciò che in realtà sappiamo da sempre, ovvero che sui set nostrani “la qualità ha rotto er ca..o”.
Di tutti i regali, di quelli belli, il ritorno di Boris su Netflix entra di diritto nella top ten. A distanza di 13 anni dalla sua uscita su Fox, questa rimane una serie di incredibile attualità, con tutti i suoi personaggi, cliché, le sue citazioni iconiche e i suoi monologhi che hanno regalato degli aforismi per descrivere un certo modello Italia con crudezza perfetta: “Un paese de’ musichette, mentre fuori si muore.”
Boris non ha avuto solo il coraggio di fare satira per primo, e in maniera implacabile ma efficace, su quello che sembrava un golem intoccabile, ovvero gli sceneggiati (e il termine desueto è scelto appositamente) italiani, fiction che sembravano davvero assemblate in uno scantinato e scritti da un generatore automatico di dialoghi. Ma anche di aver messo in campo una feroce presa in giro che è attuale ancora oggi. E di aver pur sortito qualche effetto per certi versi, di scalfire il mostro sacro che l’aveva così efficacemente generata. Questo perché è la critica alla televisione che si presenta quale ennesimo specchio (nemmeno troppo deformante) di una società, quella italiana, che ci viene proposta in tutte le sue crepe e fragilità, così allo stesso tempo esilaranti e dolenti.
Siamo tutti un po’ René Ferretti: ambivamo al cortometraggio della formica che viaggia tra le carte da gioco, con la luce perfetta e la profondità di una poesia di Borges in sottofondo per finire, invece, al vertice teorico della piramide sociale ma spogliati in realtà di tutto.
Siamo tutti Stanis La Rochelle: tendiamo come asintoti agli americani ma siamo sempre troppo italiani, inseguiamo i nostri Wim Wenders e molti di noi hanno, probabilmente, anche un gemello cattivo.
Siamo tutti Alessandro lo stagista, che ci prestiamo per una causa più grande anche a cose degradanti tipo farci chiamare Seppia senza un motivo, recitare come un cane senza appello o, peggio del peggio, cantare sotto minaccia fisica “tu sei la mia vita”.
Siamo anche tutti un po’ Corinna la Cagna Maledetta, per troppi motivi ma perché chiunque si inceppa nel pronunciare la parola gioielliere.
I personaggi, le situazioni iconiche che si susseguono nelle tre stagioni di Boris, tutti quegli “F4 – basito” sono uno dei più efficaci prodotti delle serie tv italiane, anche se non si sarebbe forse detto dallo scarso successo che riscosse al suo esordio su Fox.
Ancora oggi Boris ci parla di una società del consumo basata su poche idee ma molto confuse, mettendone a nudo le debolezze ce la fa anche amare. Il meccanismo involontario che ricorda un po’ quell’affetto insospettabile suscitato da Guareschi verso Peppone.
E finisce che, come da miglior tradizione del trash italiano, ad appassionarci è anche la storia de “Gli occhi del cuore” e sì, saremmo stati incollati davanti alla tv per sapere chi ha sparato al Conte.
Ma soprattutto, sopra ogni altra cosa che rimane di Boris a chiunque lo guardi, è la consapevolezza più radicata che ha ragione Duccio, lo sfaticato direttore della fotografia: non bisogna cercare la fotografia politica, i muri sono caduti e adesso bisogna aprire tutto. A ca..o di cane.