Una molla che scatta, l’eco del cigolio del letto che rimbomba agli angoli della mente, come una tortura. Il fuoco che brucia dall’interno. La fronte aggrottata in contemporanea ad un urlo che si appresta ad uscire, deflagrante. Saverio Barone non è solo questo ma è anche questo.
I polizieschi spesso sono abitati da figure che si somigliano. Il Cacciatore sceglie, invece, la divergenza come linea di continuità nella prima e nella seconda stagione, da poco terminata su Rai2. Se fosse dotato di vita non virtuale, Saverio Barone crederebbe di non avere nulla a che spartire con gli altri eroi. Modellato sulla figura di Alfonso Sabella, magistrato e autore del romanzo biografico intitolato, neanche a farlo apposta, Il cacciatore di mafiosi (Mondadori, 2008), Saverio Barone è un magistrato che apparentemente pare assetato esclusivamente di ambizione. Antieroe nevrotico, ossessionato da un senso di giustizia che sente di dover placare mettendo alla sbarra il gotha della mafia corleonese, trasferisce la lotta alla mafia sul terreno della caccia, trasformandola in una missione personale, in seguito al rapimento del figlio del pentito Santino di Matteo.
Francesco Montanari presta anima e corpo al magistrato attribuendo un alone cupo ed esplosivo ad una figura già spinosa e di per sé randagia.
Saverio Barone sa di essere destinato a perdere, a livello umano. Perdere la pazienza, l’equilibrio, il sonno, la salute, gli affetti. Ma ciò che lo muove, a livello istintivo, misura tipica di un certo tribalismo, è la volontà di affermare non solo la legalità, ma il bene, come gli eroi.
Il Cacciatore tratteggia una figura figlia della tradizione letteraria, all’apparenza uscita da un fumetto di Frank Miller, destinata ad abitare l’immaginario collettivo non solo in questi tempi di crisi antropologica.