Al termine della Seconda Guerra Mondiale le condizioni economiche e sociali del vecchio Continente e dell’Italia erano particolarmente critiche: oltre all’alto prezzo in vite umane ed alle indicibili sofferenze di centinaia di milioni di persone, ingentissimi furono i danni materiali. In questa situazione, e con il deteriorarsi dei rapporti tra Usa ed Urss, l’inizio della cristallizzazione bipolare – avvenuta nel febbraio 1947– portò ad un relativo cambiamento della politica estera americana. L’idea della necessità di un ampio intervento economico era mossa dalle preoccupazioni degli Stati Uniti e la principale di queste inquietudini era determinata dal fatto che la ripresa economica potesse essere soffocata sul nascere e che la crisi economica comportasse laceranti ripercussioni politiche.
Questa nuova Policy of Containment comportava un consolidamento dei Paesi europei occidentali sul piano politico ed economico. Il Presidente Truman, democratico, già Vice Presidente di Roosevelt – ma oppositore della “Teoria Morgenthau”, tesa alla deindustrializzazione ed alla ruralizzazione della Germania post-bellica – considerava il successo del comunismo in Europa Orientale come conseguenza della crisi economica in quei Paesi.
La dottrina Truman
La “dottrina Truman” divenne così la strategia di politica estera ideata dal Presidente il 12 marzo 1947, in un discorso tenuto al Congresso, prendendo spunto dai casi di Grecia e Turchia, che avevano lasciato intravedere la possibilità di una resa di fronte all’espansionismo sovietico. In particolare, la Grecia si trovava nel pieno di una guerra civile, che sarebbe terminata nel 1949, in cui si scontravano realisti e comunisti; la Turchia, invece, soffriva le pressioni sovietiche che miravano a risistemazioni territoriali negli strategici distretti di Kars e Ardahan, nonché alla revisione del regime degli Stretti, regolato dalla convenzione di Montreux del 1936. La sua dottrina si proponeva, in termini generali, di contrastare le mire espansioniste dell’avversario comunista nel mondo.
Gli americani si convinsero che, data la situazione, un programma unificato di aiuti, rigidamente controllato da loro, avrebbe garantito pace, prosperità, stabilità politica, indebolimento dei partiti comunisti e benessere per gli Stati Uniti. Il “Programma di Ricostruzione Europea” (ERP) sarebbe stato diverso dagli aiuti precedenti forniti all’Europa occidentale, profusi senza alcun criterio e che non avevano raggiunto il loro scopo. Infatti la novità di questo programma pensato dal Segretario di Stato, generale Marshall, è che esso avrebbe rappresentato la “dottrina Truman” in azione.
Era il 5 giugno del 1947 quando all’Università di Harvard, nel corso della cerimonia annuale, il Segretario di Stato George Marshall parlò della necessità di elaborare un nuovo piano di aiuti per l’Europa: lo European Recovery Program (ERP) previde uno stanziamento di poco più di 14 miliardi di dollari per un periodo di quattro anni (quasi 100 miliardi di dollari attuali), con l’obiettivo di favorire una prima integrazione economica nel Continente. Nacque contestualmente al Programma anche l’Organization for European Economic Cooperation (in italiano OECE), organismo sostanzialmente tecnico, attraverso il quale i programmatori inviati da Washington cercarono di convincere gli europei ad utilizzare gli aiuti non per fronteggiare le contingenze del momento, quanto piuttosto per avviare un processo di trasformazione strutturale dell’economia dei loro Paesi.
Contrariamente a quanto auspicato, pur non opponendosi alla stabilizzazione delle loro valute ed all’implementazione del commercio internazionale specie con gli Stati Uniti, la quasi totalità dei Paesi beneficiari chiese, infatti, alla Economic Cooperation Administration (ECA), l’ufficio preposto alla collazione degli aiuti, di poter utilizzare i finanziamenti forniti dall’ERP per l’acquisto di generi di prima necessità, prodotti industriali, combustibile e, solo in minima parte, macchinari e mezzi di produzione.
L’ERP provocò una violenta rottura nel periodo iniziale della Guerra Fredda, sia perché nel Piano era stata inclusa la Germania Occidentale, sia perché si collocava al di fuori della Commissione Economica delle Nazione Unite per l’Europa. La situazione di tensione si aggravò. L’idea di Marshall era stata già sostanzialmente comunicata agli inglesi e venne positivamente accolta dalla Francia, che però chiese di estendere gli incontri preparatori anche all’Unione Sovietica; che, dopo un’iniziale manifestazione d’interesse, interpretò gli aiuti come un’iniziativa antisovietica e si rifiutò di partecipare al negoziato, obbligando tutti i Paesi del blocco orientale a fare altrettanto. La risposta di Mosca fu il “Piano Molotov”.
Il Piano Marshall
Il Piano Marshall non venne concepito solo dal Segretario di Stato, ma anche da Dean Acheson, uno dei principali artefici della “dottrina Truman” ed ideologo della Guerra Fredda. Acheson, all’interno del Dipartimento di Stato, costituì una speciale commissione per gli aiuti esteri: La potenza economica della nazione doveva essere usata per sostenere la stabilità economica e la normalità dei processi politici in qualsiasi parte del mondo, in modo da orientare gli altri Stati verso la politica degli Stati Uniti. Il “Piano Marshall”, fu senza dubbio uno dei momenti più importanti della politica internazionale nell’immediato secondo dopoguerra. Marshall affermò che l’Europa avrebbe avuto bisogno, almeno per 3-4 anni, di ingenti aiuti da parte statunitense e che, senza di essi, la gran parte del vecchio continente avrebbe conosciuto un gravissimo deterioramento delle condizioni politiche, economiche e sociali.
George Catlett Marshall (Uniontown, Pensilvania, 1880 – Washington D.C., 1959), 50mo Segretario di Stato degli Stati Uniti dal 21 gennaio 1947 al 20 gennaio 1949, successe a James Francis Byrnes. Nato in una famiglia del ceto medio studiò presso il Virginia Military Institute, quindi entrò nell’ Esercito degli USA. Durante la Grande Guerra si occupò di pianificare operazioni ed lavorò al fianco del generale Pershing, comandante dell’American Expeditionary Forces. Capo di Stato Maggiore Generale nel 1939, Marshall riorganizzò profondamente le Forze Armate nella prospettiva della guerra ed esercitò un grande influsso sulla condotta delle operazioni in tutti gli scacchieri bellici. Partecipò alle conferenze interalleate di Casablanca, Yalta, Potsdam, nelle quali vennero decise le linee strategico-politiche del conflitto. Nel 1941 entrò nella Gran Loggia Massonica del District of Columbia. Ebbe il premio Nobel per la Pace nel 1953.
Al termine della guerra la situazione generale dell’Europa sembrava avvantaggiare il comunismo: la disperazione facilitava la diffusione di idee socialiste ed i partiti di sinistra predominavano nei fronti antifascisti. La necessità di creare un baluardo contro l’espansione sovietica verso Occidente risentì dell’evidente crollo dell’Impero Britannico. Il Piano Marshall, garantendo la ripresa e la stabilità dei governi, arginò l’impeto delle sinistre e scongiurò ogni tentativo espansionistico da parte di Mosca. L’incubo di una diffusione del comunismo su tutto il continente va, col senno di poi, forse ridimensionato. L’Unione Sovietica, più che intenzionata ad espandersi verso Occidente, si proponeva di rafforzare il proprio controllo sull’Europa orientale, mentre, per quanto riguarda i partiti comunisti occidentali, senza il concreto e massiccio appoggio sovietico essi non erano in grado di dar vita ad un’insurrezione armata vincente, né in Italia, né in Francia ed in fondo neppure in Grecia. La minaccia rivoluzionaria reale era probabilmente minore rispetto ai timori statunitensi.
I primi accordi per l’applicazione del Piano Marshall in Italia avvennero il 2 febbraio del 1948, quando l’ambasciatore USA a Roma, James Dunn, ed il nostro Ministro degli Esteri, Carlo Sforza, firmarono un Trattato decennale di Amicizia e di Commercio fra Stati Uniti ed Italia. Un mese e mezzo più tardi, il 20 marzo, il Segretario di Stato riferì dell’invio all’Italia di vari milioni di dollari, anche se l’ERP doveva ancora essere approvato definitivamente dal Congresso. Infatti a Washington si era deciso di anticipare l’annuncio in vista delle decisive elezioni del 18 aprile 1948.
A tal riguardo non è certo di scarso interesse il discorso di apertura della campagna elettorale del 1948, tenuto a Milano da Pietro Nenni, con Togliatti leader del Fronte Popolare. Buona parte del discorso è dedicato proprio al Piano Marshall. Pietro Nenni non lo rifiutava, ma rivendicava il diritto di criticarne gli aspetti a suo modo di vedere discutibili:
“Non è vero che la crisi italiana del 1947 possa essere messa in rapporto con la polemica mondiale sul Piano Marshall…. La verità è che l’esclusione dell’Estrema Sinistra dal governo fu determinata da ragioni di politica interna e sociale. Nel corso di questi ultimi mesi una parte importante della nostra critica ha avuto come tema l’orientamento presente e futuro della nostra politica estera in base ai tre punti fondamentali che campeggiano l’evoluzione delle relazioni internazionali e che sono: la dottrina di Truman, il piano Marshall, l’iniziativa Bevin per la costituzione di un Blocco Occidentale, non soltanto di carattere economico, ma anche di carattere politico- militare. Circa la ‘dottrina Truman’ ogni polemica oggi può essere considerata chiusa. Con essa la ‘dottrina di Monroe’ della egemonia degli Stati Uniti sul Continente americano si è estesa a tutto il mondo. La dimostrazione concreta di questa nuova politica egemonica americana ha la sua conseguenza nel fatto che ormai gli Stati Uniti considerano il Mediterraneo come una specie di frontiera avanzata della loro civiltà nei confronti della così detta barbarie asiatica e bolscevica, per cui si sono insediati in Turchia e in Grecia. Sul Piano Marshall noi abbiamo assunto una posizione critica e non negativa che deriva da una valutazione di carattere politico e tecnico. …uno degli aspetti più preoccupanti del Piano Marshall è l’organizzazione di un controllo che prevede l’approvazione da parte americana di qualsiasi progetto da attuarsi con i fondi e con parte sostanziale dei fondi americani… Il Piano prevede l’obbligo che non siano impiegati questi fondi a fini diversi, non conformi agli interessi degli Stati Uniti. Posti quindi di fronte ad un insieme di disposizioni alquanto caotiche non si addice ad un Paese serio, che ha bisogno degli aiuti americani, prendere una posizione negativa, ma non gli si addice neppure il tono apologetico dei democristiani e dei secessionisti socialisti i quali hanno spinto la loro «cupidigia di servilismo» fino all’inverosimile. A noi si addice invece discutere ognuno dei paragrafi e delle clausole del Piano”. (https://fondazionenenni.blog/2017/04/01/nenni-le-nostre-critiche-al-piano-marshall).
Nel primo anno di attivazione dell’ERP, dal luglio 1948 al luglio 1949, esso rappresentò per l’Italia il 5,3% del Pil e gli aiuti furono essenziali sia per le materie prime ed i prodotti che arrivarono dagli Stati Uniti, sia perché impedirono il deficit di dollari per acquistarli. In Italia i prestiti ERP diedero l’opportunità a molte medie imprese ed a grandi industrie private come la Fiat e l’Edison di rinnovare impianti e macchinari industriali; tali opportunità vennero offerte anche alle imprese pubbliche dell’IRI. Questi aiuti dovevano essere “guadagnati” in qualche modo con un buon comportamento politico, economico e dovevano essere usati per promuovere la stabilità finanziaria. Gli americani fecero capire che tali finanziamenti non sarebbero arrivati se al governo ci fossero stati partiti comunisti, come in Italia e Francia. La gestione italiana di queste risorse venne messa in discussione da politici ed economisti americani; la critica più accesa fu quella espressa nel rapporto del Country Study al Congresso dove si criticava l’Italia per la gestione degli aiuti, in quanto gli USA dissentivano dalla politica deflazionista dell’Italia, poiché essa non aveva ragione di esistere, visto il continuo rifornimento di materie prime, macchinari e la garanzia illimitata di aiuti.
Alcuni economisti statunitensi giudicarono negativamente l’impatto del Piano Marshall sull’economia europea dato che, nella loro opinione, esso aveva prodotto effettivamente una crescita sostenuta, ma grazie al basso costo del lavoro, cosa che – non avendo indotto una contemporanea crescita dei redditi – aveva portato ad un certo ristagno nella spesa e nei consumi. Il piano Marshall fu, comunque, il primo stadio per la costruzione di una comunità di idee, di legami economici fra l’Europa e gli Stati Uniti, contribuendo in questo modo alla creazione dell’Occidente post-bellico. Alcuni hanno rilevato come è proprio a partire dal Piano Marshall che inizi l’”americanizzazione dell’Europa”:
“Esso oltre a contribuire alla creazione dello spazio del ‘Libero Mercato’, rese gli abitanti psicologicamente conformi al suo modello economico. Nella banalità del quotidiano si andavano minando le fondamenta e le identità dei popoli europei: chi poteva sospettare di una lattina di Coca-Cola, dei blue jeans, del cinema, del juke-box? In Italia si attuò il miracolo italiano, in Francia lo chiamarono les trente glorieuses, per tutti fu un successo a cui seguirono modificazioni strutturali della nostra società, una nuova idea di sviluppo, nonché un radicale mutamento delle mentalità, il nascente fenomeno dell’americanismo: ovvero l’ammirazione incondizionata verso tutto ciò che era americano. Il mito del progresso e dello sviluppo, dell’innovazione e della crescita, non poterono trovare più alta espressione se non nella liberal-democrazia statunitense e nel suo agire pragmatico a cui tutta l’Europa fece riferimento. Dall’economia rurale, povera, lenta, si passò all’economia dell’abbondanza. Alla penetrazione commerciale ed all’insediamento delle multinazionali nel nuovo cortile europeo, succedette la penetrazione ideologica, la creazione oltre che del Mercato, dei mercanti e dei consumatori. L’Europa fu rapidamente fagocitata dal mito dell’american way of life. L’individualità divenne allora idealmente costituita sul riflesso delle istanze che regolavano la società capitalistico-liberale. Il Piano Marshall rese gli abitanti psicologicamente conformi al suo modello economico”. (Lorenzo Vitelli, Il piano Marshall e l’americanizzazione dell’Europa, 2014, da l’intellettuale dissidente).
Il Piano Marshall terminò nel 1951, come originariamente previsto. I tentativi di prolungarlo per qualche tempo non ebbero effetto a causa dello scoppio della guerra di Corea e della vittoria dei repubblicani nelle elezioni per il Congresso dell’anno precedente. Il Piano ebbe seguiti assai rilevanti e, al di là di critiche puntuali o preconcette, consentì all’economia europea di superare un momento di grave crisi e favorì la ripresa, permettendo ai Paesi beneficiari di superare l’indice di produzione prebellico già nel momento in cui il flusso di aiuti terminò. I risultati furono senza dubbio positivi, almeno nell’ottica dei sostenitori dell’economia di mercato, sotto il profilo della diffusione in Europa – favorita da una capillare azione di propaganda – di concetti quali la “libera impresa”, il “recupero di efficienza”, l'”esperienza tecnica”, la “tutela della concorrenza”, lo “spirito imprenditoriale”.
Il Piano indicò agli europei che l’interdipendenza poteva costituire una soluzione alle tensioni ed ai conflitti che da sempre avevano caratterizzato la loro tormentata storia. Sul piano interno, poi, l’aiuto statunitense consentì ad alcune fragili democrazie occidentali di rilassare progressivamente le politiche di austerità e di migliorare le condizioni di vita delle popolazioni.
È indubbio che con il Piano Marshall gli americani vincitori assestarono un colpo a quanto rimaneva della sovranità degli Stati Europei, a proprio vantaggio. È altrettanto vero che, grazie al Piano, i progetti europeisti, fino ad allora caratterizzati da una certa vaghezza utopistica, presero corpo, fino a partorire i Trattati di Roma del 1957 ed i seguiti conosciuti.
*già ambasciatore d’Italia in El Salvador e Paraguay