Ai lati della strada i pellegrini ammucchiano sassi, come se si trattasse di costruire minuscole pagode, pietre miliari o forse solo labili tracce del passaggio; diventa importante affermare “io sono passato di qui”, tant’è che c’è sempre, lì accanto abbandonato, un braccialetto, un foglio di carta con scarabocchiati pochi pensieri, un pezzo di stoffa consunto, il segno più emblematico del transito e tutta la tangibilità d’essere molto lontani da casa. Guadagno Portomarin – con la sua splendida chiesa romanica costruita dall’Ordine dei cavalieri ospitalieri di san Giovanni di Gerusalemme – e dopo lunghi tratti freddi e nebbiosi sulle alture, il clima torna caldo. Dicono che la Galizia abbia particolari affinità con l’Irlanda. Penso ci sia del vero. C’è un’idea di preludio marittimo, suggestione alimentata da correnti salmastre, nonché dal prelibato pulpo a la gallega, polipo stufato piccante, piatto tipico della regione. Nelle locande lo servono in una ciotola di legno ed io non manco di accompagnarlo con una bottiglia di vino bianco Albarino, mediamente sempre più che buono. Anche nei rifugi la simbologia celtica salta all’occhio, tra l’immenso verde circostante e le rustiche casupole, la croce nel cerchio è qui viatico per la conchiglia del Finisterre. Sosto a metà tappa in un casolare che applica il “donativo”, ovvero ci si rifocilla con offerta libera. L’atmosfera è particolarmente “pagana”, tanto che il barbuto padrone di casa – incuriosito dai miei tatuaggi – si propone per una lettura divinatoria delle rune. Mi accomodo a tavolino, mentre le pietre “segnate” fuoriuscite dal sacchetto di velluto cadono sul piano, cozzando rumorosamente tra loro. Ne esce un quadretto edulcorato che contesto, inaugurando così una curiosa disputa interpretativa; servono quattro lingue mescolate tra loro per capirci, ma poi finalmente tocca a me leggere le rune all’arreso sciamano. Non ci rivedremo mai più, ma serberemo il ricordo dei nostri rispettivi futuri.
Talvolta nei paraggi c’è un francese, pellegrino solitario presumo cinquantenne, che fuma la pipa appartato, non ci siamo mai parlati ma so per certo che la simpatia è reciproca. Intuisco il comune scetticismo per le comitive, a pochi chilometri da Santiago divenute nel frattempo indistinto fiume umano. Capita che per giorni s’abbiano attorno le stesse persone, poi spariscono di colpo, perché il passo sulla strada non è uguale e nemmeno la durata delle soste. Ma qui ormai si viaggia in colonna. Sbotto: e tutti questi (nonne, bambini, scouts, sudamericani animisti canterini, contingenti di parrocchiani con magliette brandizzate)? Da dove spuntano fuori? A pochi chilometri dalla città del Santo si procede tra due filari di bancarelle di souvenir. Oggi è il 25 luglio e faccio il mio ingresso in Santiago proprio nel giorno di San Giacomo; previsti fuochi d’artificio e feste ad oltranza, mentre io mi sento un profugo, un alienato, un disagiato, un veterano senza medaglia. La città è invasa da pellegrini dell’ultima ora, non si trova un letto, non si può sostare con lo zaino in piazza per ragioni di sicurezza, non si può accedere alla cattedrale senza aver pagato obolo, questuanti d’ogni risma chiedono carità, per il resto l’elegante centro storico osserva il viavai ipotizzando profitto. Fatico non poco per trovare la sede dove ritirare la Compostela, l’agognata pergamena. Mi cadono le palle quando scopro che è in una specie di ufficio bancario, tutto bianco, dove zelanti impiegati dietro al vetro timbrano e consegnano. Timbrano e consegnano, 5 euro per il tubo di carta. Mi affaccio allo sportello e resto di stucco: l’addetto al quale consegno la credenziale indossa una maglietta dei Motorhead. Non mi aspettavo certo l’incenso, ma qui lo zolfo è ostentato. Esco ridendo.
Fuori incrocio Serafino il calabrese, ha una camera in hotel prenotata da mesi. Previdente, lui. Gli assegno volentieri il dispregiativo ruolo di turista e giro i tacchi. Me ne sbatto di tutto, decido di riprendere il pellegrinaggio, direzione oceano. Sono le 16, mi lascio alle spalle il luogo tanto agognato, i festeggiamenti, gli amici, il Santo, i turiboli roteanti, le bottiglie di vino che verranno stappate, lo zolfo e l’incenso. La meta va assolutamente spostata di nuovo, oltre. Giungo alla tappa seguente a notte fonda, appena il tempo di lavarmi e dormire che è già il mattino dopo. Ancora villaggi medievali, antichi ponti su ruscelli, l’onnipresente hórreo, sorta di piccolo granaio in pietra sopraelevato, libero bestiame al pascolo. Ultime faticose salite nella bruma, quando s’apre improvvisamente all’orizzonte un lembo blu. L’oceano, la fine della terra conosciuta dagli antichi e l’estremo lembo d’Europa, ma anche la fine della terra che ho calpestato per più di mille chilometri. L’arrivo a Muxia, piccolo villaggio di pescatori, è pura gioia. Corro in spiaggia, deserta, liberandomi di ogni fardello e mi getto direttamente in acqua. Follia e segreti. Ficco il bastone dietro uno scoglio, abbandonando così al destino il mio vero sostegno. Visito poi Nosa Senora da Barca, la chiesa dei naviganti, bastione di spiritualità eretto a qualche metro dai flutti. Riparto quindi per l’ultima tappa, Fisterra. Qualche chilometro separa il centro storico dal faro, dove un cippo segnala lo zero. Il pellegrinaggio è concluso. Cala il sole sull’oceano e su molte altre cose, attorno a me uomini e donne provenienti da chissà dove, scrutano l’orizzonte in silenzio. Tutte gambe rotte e facce bruciate. Non si può procedere oltre, è giunto il momento di fermarsi a contemplare. Ripenso all’infinità di passi che mi hanno portato fin qui, a luoghi e volti incrociati, e forse trovo risposta alla domanda degli amici – “perché hai voluto farlo?” – sempre elusa con vaghezza: “Conta solo il cammino, perché solo lui è duraturo e non lo scopo, che risulta essere soltanto l’illusione del viaggio”, rammentando Antoine de Saint-Exupery, mentre l’ultima striatura di luce rossastra s’eclissa laggiù, tra cielo ed acqua, alla fine del mondo. Se fossi giunto qui con altri mezzi, non avrei certo visto lo stesso spettacolo.
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