“Sin dolor no hay gloria” mi sono ripetuto per puro autoconvincimento, prima di partire per un pellegrinaggio lungo più di 1000 km, ovvero il Camino de Santiago. Il motto può sembrare ridondante e forse lo è, almeno finché le distanze vengono soppesate virtualmente o percorse con rapidità, grazie ai mezzi di trasporto. A passo d’uomo nel mondo reale, invece, si può percepire un senso di smarrimento, soprattutto all’inizio, a maggior ragione se come il sottoscritto privi di preparazione atletica; dettaglio, quest’ultimo, che mi è parso logico sistemare cammin facendo: in cosa differirebbe un pellegrinaggio da una gara podistica, altrimenti? Non so bene il motivo di questa scelta, salutando a casa ho risolto con una battuta: “me l’ha ordinato Dio!”.
Atterro a Lourdes con vaghe idee di come affrontare il tragitto; avendo perso tutti i treni possibili per Saint Jean Pied-de-Port, luogo noto per la partenza in massa di pellegrini, dormo la prima notte in un parco. Con me ho Pantomima per un’altra volta, di Céline. Mi servirà, tutto quel bilioso cinismo? “Devo assolutamente muovermi da questo luogo di miracoli, che non desidero”, rifletto, soppesando l’incoscienza che mi ha condotto fin qui; freddo e umidità, i viali del centro sono un unico negozio di souvenir mariani, autocisterne d’acqua prodigiosa messa in madonne di plastica, apoteosi del kitsch; certo andrò a piedi, con 15 kg di zaino sulle spalle, ma quale strada scegliere? Delle quattro grandi vie jacopee, che attraversavano l’Europa, tre confluivano a Roncisvalle. La quarta invece – quella che mi toccherà in sorte – portava ad attraversare i Pirenei al passo del Somport (il Summus Portus romano), sfruttando un tratto dell’antica strada che collegava Francia e Spagna. Da quel punto, a 1.640 metri di altitudine, inizia un duro percorso alternativo. A rompere gli indugi è il monito del volontario all’ufficio informazioni, il quale mi sconsiglia di raggiungere Saint Jean coi mezzi: troppi pellegrini lassù, ostelli congestionati. Forse ha capito che voglio procedere per i fatti miei. Dopo aver apposto sulla credenziale immacolata il primo timbro, mi consegna una conchiglia e mi impartisce il “buon cammino”. Un augurio che scambierò poi centinaia di volte con sconosciuti.
Credenziale e conchiglia: la prima da richiedere alla Confraternita di San Jacopo, consente di trovare ospitalità presso gli ostelli a prezzi modici, mentre la seconda è il simbolo per rendersi riconoscibili, come nell’iconografia di San Giacomo e San Rocco. Decido quindi di affidarmi alle gambe (afflitte da anni di dandismo), affrontando la strada meno battuta verso il valico, superato il quale inizierà il Cammino Aragonese e quindi quello dai più conosciuto, detto Francese. Fuori Lourdes c’è una foresta stupenda, ma il sentiero sale irto quasi subito. L’impervia rotta riserva paesaggi meravigliosi, nel mezzo di boschi infiniti, attraversando borghi di sasso, piccole pievi romaniche, lavatoi in pietra dai tetti d’ardesia, antichi ponti e preziose fonti dove approvvigionarsi d’acqua. Le ore si susseguono nel silenzio, tempo e distanze si dilatano, fatica e stupore si mescolano. Percepisco d’essere completamente solo. Valga ad esempio il traumatico battesimo: mi perdo in una selva fangosa sfiorando la disperazione – la segnaletica è talvolta occultata dalla vegetazione – giungendo quindi tardissimo, stremato, in un paesino di poche case. Asson, è la mia prima tappa, orgoglio che sfuma in un attimo. Qui una signora col fazzoletto in testa, mi attende sulla porta scocciata: ho impiegato dieci ore per coprire meno di trenta chilometri. Mi fa capire a gesti che puzzo; non sto in piedi, ho fame e sete. Dopo aver preso alloggio in una soffitta ammuffita, cerco da mangiare. Trovo un negozio aperto, pizza con uovo e funghi, birra rossa, due banane (e dentifricio) mi riconsegnano al mondo dei vivi. Tornato in quella specie di centro profughi, lavo i vestiti col sapone di Marsiglia prima di dormire.
Con la notte arriva la pioggia, impossibile stendere i panni fuori dall’abbaino. Il mattino dopo, sveglia alle 6.00, li appendo allo zaino con le mollette sperando nel sole. Giungerò più tranquillo ad Arudy, a casa di un vecchio prete, il quale mi apre la porta della canonica: uno spoglio giaciglio e una zuppa di verdure. Qui vige la regola del donativo, ovvero un’offerta libera, ma pure il rispetto per regole comunitarie; essendo l’unico ospite, la cena viene consumata in due, buona occasione per rispolverare un discreto francese. Lascio perdere Céline e punto su Giovanna d’Arco.
Il curato vuole sapere da dove vengo, che c’è dalle mie parti, io gli racconto dei Gonzaga, salta fuori magicamente una bottiglia di vino. Uomo colto, casa piena di libri, mi dà la benedizione il mattino dopo, da scettico ma altresì poco atletico, non resto indifferente. Rimango incantato poi da Oloron-Saint-Marie e dalla splendida cattedrale romanica. Sosta mattutina alla boulangerie, colazione con torta squisita e lezzo di sterco equino nell’aria. Qui incrocio i primi pellegrini, americani, tedeschi, giapponesi, del resto i francesi dei Pirenei sono austeri ma gentili. Vacche al pascolo a destra e a manca. La salita per raggiungere il confine franco-spagnolo mi sembra, per più di un attimo, l’impresa più ardua della mia vita; fino a quando non vedo davanti a me una vecchia pellegrina – almeno 70 anni – procedere lenta ma determinata; la sua serenità mi insegna qualcosa che chiamo temperanza. Decido perciò di non superarla. Raggiugo in 6 giorni Somport, dove un cippo indica perentorio “Santiago de Compostela 858 Km”. Un brivido di consapevolezza, che non voglio assecondare, concentrandomi unicamente sulla tappa successiva.