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Artefatti. Il percorso del Cavaliere Jean Cau verso il Bosco

Non la farsa delle posizioni del mondo ma la postura eretta nel viaggio di una vita

by Donato Novellini
3 Novembre 2023
in Artefatti
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Jean Cau

Curioso percorso quello dello scrittore francese Jean Cau, passato dalla militanza intellettuale a sinistra, fu per dieci anni segretario di Jean-Paul Sartre, alla destra radicale d’area Nouvelle Droite nel dopo guerra, pare in seguito ad alcuni suoi reportage riguardanti la spinosa questione algerina; scelta indubbiamente anticonformista, coraggiosa, benché in tutta onestà collocata in un contesto culturale come quello transalpino, assai più vivace della quasi totale omologazione intellettuale post-bellica capitata dalle nostre parti. Premio Goncourt per l’ottimo romanzo La pietà di Dio, da recuperare, s’arrabatterà principalmente nel giornalismo; si badi, Jean Cau non è il tipico reazionario, benché ne abbia via via assunto tutte le caratteristiche, difatti Che Guevara fu un suo eroe e del rivoluzionario argentino fece appassionata apologia (Una passione per Che Guevara, 1979) contribuendo in tal modo ad introdurne la figura negli inariditi circuiti di destra, in chiave antimperialista ed esistenzialista. Cau, originario della Guascogna, portò segretamente nel cuore, anche nella mondanità parigina degli anni progressisti, un intimo legame atavico con la terra di provenienza, meta-luogo al confine con la Spagna carico di Storia: la passione per la corrida, ad esempio, tauromachia reazionaria ai tempi suoi, innominabile ora senza scatenare un putiferio animalista. Occitania, lenga d’òc, lingua romanza e vigneti, cristianesimo e paganesimo affratellati o sovrapposti per il mantenimento di riti ancestrali, più importanti della politica, più importanti dello stato e della religione in voga. Si tratta, anche qui, d’Europa, ovvero di radici.

Proprio da questa consapevolezza d’appartenenza occidentale, carica di simboli, tradizioni e di ritorno alla Terra, nasce un testo stranissimo, visionario, romantico ed utopico livre de chevet come suol dire in questi casi, quale è Il Cavaliere la morte e il diavolo (1977), edizioni Settimo Sigillo, con doppia prefazione di Pietrangelo Buttafuoco e Sigfrido Bartolini. Libro in qualche modo formativo, talmente “passato” da aver travalicato il tempo e le mode, talmente desueto oggi da risultare in più passaggi addirittura profetico. Il testo, disamina artistica ma soprattutto simbolica dell’omonima celebre incisione a bulino di Albrecht Dürer, diventa pretesto per delineare fisionomia e condotta di un eroe atemporale, perciò accidentalmente sempre contemporaneo. Lo scrittore francese fa uscire l’opera dal museo, ne anima l’austera fissità senza trascurare alcuno degli elementi, anche i più microscopici ed allegorici presenti nella composizione, per tessere una trama che va a lambire la spossatezza della contemporaneità europea. La foresta dunque, scenografia attiva e meta necessaria, qui certamente connessa alla trattazione jungeriana, così pure riconducibile per suggestione all’epopea del Signore degli anelli, precisamente alla foresta di Fangorn, contemporaneamente sede di pericoli e salvezza, e ciò dipende dall’animo di chi vi entra. D’altronde il cavaliere ferrato procede consapevolmente da destra a sinistra, dalla città sulla collina al pericolo, dalla vita alla morte, e Tolkien toglie il dubbio con la domanda di Frodo: “Mordor, Gandalf, è a sinistra o a destra? A sinistra.”

La morte cinta al capo da serpi con la clessidra in mano e il diavolo, cinghiale cornuto armato d’alabarda, due figure mostruose, bestiali, sembrano circondare senza speranza il cavaliere, un teschio a terra posato sul tronco d’albero tagliato si fa monito, vanitas memento mori, epperò c’è anche la beneaugurale salamandra, simbolo medievale e transustanziale di Cristo, poi il fedele cane, a sua volta protetto dall’andatura possente del destriero. Nonostante il pericolo imminente e l’atmosfera ostile, il cavaliere solitario procede impassibile, scevro da preoccupazioni materiali, ubbie deformanti riguardanti passato e futuro, incurante di contingenze e conseguenze egli sta, saldo e sereno nel suo transito boschivo; l’interpretazione di Cau si fonda proprio sull’archetipo del soldato cristiano medievale, uomo d’ascendenza pagana, convertito alla “nuova” fede più dalla possibilità di poter combattere sotto un vessillo che dai principi fondanti della religione stessa. Alla fine si tratta – come nel film Il settimo sigillo di Ingmar Bergman – di un’ultima decisiva battaglia che egli deve affrontare in solitudine. Qui in fondo, mancando l’insegna di ordine cavalleresco, torna l’influenza esistenzialista di Sartre e del suo “Dio assente” nonché la peculiare definizione di Anarca messa a punto da Jünger ne Il trattato del ribelle.

Il Cavaliere, la Morte e Il Diavolo di Durer
Il Cavaliere, la Morte e Il Diavolo di Durer

Il gioco di rimandi all’attualità divisiva (quella politicizzata di fine anni ‘70) funziona fino ad un certo punto, principalmente evocando – pur nel consapevole pessimismo crepuscolare della Civiltà europea – una forma di individualismo eroico d’ascendenza evoliana, più concretamente l’indipendenza attiva del singolo alla maniera de L’unico e la sua proprietà di Stirner; il libro infatti non indica una via, ma bensì suggerisce la condotta da mantenere. L’autore prevede, sbagliando come altri distopici tipo Orwell, che il pericolo totalitario venga da Est, epperò in fondo se lo augura, proprio quando i comunisti da salotto francesi ed europei smettono di crederci: il comunismo russo è una maschera destinata a cadere prima o poi, vernice rossa sotto la quale resiste l’ultima cavalleria europea. Le pagine dedicate alla Russia, così come quelle spietatamente realiste riguardanti la decadenza dell’uomo europeo, la purulenza democratica e la secolarizzazione cattolica, hanno all’oggi tutto il sapore amaro della profezia avversa avverata. Allontanatosi radicalmente dalle fumosità intellettuali, dai cavillamenti speculativi e dagli esistenzialismi impotenti, Jean Cau ci lascia una preziosa testimonianza etica ed estetica, in misura minore politica giacché Il Cavaliere la morte e il diavolo non è un saggio riguardante l’eventuale posizione da assumere nelle farse del libero mondo democratico, fatto totalmente trascurabile, ma al contrario potrebbe ancora insegnarci a come stare ritti su un cavallo, magari diretti al bosco e alle sue risposte.

Donato Novellini

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