C’è un sapore antico dietro il ritorno in serie A di una squadra che ci mancava da quasi cinquant’anni. La Società Polisportiva Ars et Labor di Ferrara è una figurina che sembrava ingiallita, che colorerà di seppia il prossimo campionato. La Spal è una di quelle squadre che sono autenticamente, irrimediabilmente romantiche.
La storia spallina risale almeno all’anteguerra. Ma è dopo la guerra che diventa una delle fotografie più nitide di un’Italia che non c’è più, quella degli anni ‘50. Nasce come squadra dell’oratorio, come la più classica delle fucine di campioni (e di sogni) di una nazione che voleva scrollarsi di dosso le macerie del Dopoguerra. Ha la maglia azzurra, con i risvolti bianchi. Poi la cambia, un gessatino degli stessi colori che ne puntellerà il ricordo nelle menti di generazioni di raccoglitori di figurine. Quel calcio lì è ancora in bianco e nero, come la primissima maglia estense.
La Spal conquista il diritto di battersi nel massimo campionato nella stagione 1950-51. Rimane in serie A per tredici anni, arriva a un passo dal mettere le mani sulla Coppa Italia, ma il Napoli (che nel ’61-62 era in B) gliela nega. Poi la tarantella di salite e ridiscese, fino all’ultima nel 1968. A Ferrara, in quegli anni, giocano (tra gli altri) un già maturo Osvaldo Bagnoli e un rampante Fabio Capello. Dietro quel miracolo di provincia c’è uno dei tanti patron illuminati: Paolo Mazza, artefice innamorato di un pallone artigianale e, per questo, tanto affascinante.
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La decadenza sembra ghermirla. Negli anni ’70 e ’80 è una presenza fissa in serie B nonostante cadute e risalite dalla terza serie. Con alterne fortune e nomi più o meno altisonanti (su tutti Gibì Fabbri, ma poi la Spal retrocede in C con Luisito Suarez in panca, risale la china con Giovanni Galeone) arriva fino agli anni ’90. La grandeur spallina si concretizza quando, nel 1991-92, e con l’ultimo ritorno in panchina di Giovan Battista Fabbri, i biancazzurri ritrovano la B dopo anni di Purgatorio. L’anno dopo, però, la Spal punta troppo in alto e finisce per perdere il treno, così scende di nuovo.
Eppure era una squadra in cui militavano calciatori che faranno parlare di sè: c’è Nippo Nappi in attacco, per esempio. A centrocampo un giovanissimo Roberto Breda – che poi giocherà a Salerno e a Parma -, sulla fascia c’è Michele Paramatti, terzino tignoso che diventerà icona del calcio provinciale.
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Arriviamo al 1994. Al 5 giugno di quell’anno, quando una punizione calciata nel sette dal mediano Zamuner si insacca dietro le spalle del portiere del Bologna Cervellati. La Spal, in quella semifinale playoff giocata al Dall’Ara, eliminerà, di fatto, il Bologna dalla corsa alla promozione in B. Per gli spallini è stata, quella, una delle ultimissime gioie. Di quelle cui ti aggrappi, affannosamente, quando tutto va male. Quei momenti belli che ti raccontano chi sei, perché tifi per una squadra che fa la spola tra tribunali fallimentari e campetti di periferia. Quelli che rinfacci al rivale che gigioneggia perché, lui, sta lassù in A e “non ti vede proprio” e figurati se ci pensa ancora. Ma lo sapete tutti e due: quella è una sconfitta che, a Bologna, ancora non l’hanno digerita.
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La Spal è nell’immaginario collettivo la squadra che viene dalla provincia. Quelle dove si lavora sodo e si cercano i risultati, dove l’ambiente è caloroso e innamorato. Dove puoi compiere quelle imprese che altrove ti chiederebbero come ordinaria amministrazione. È il simbolo di un pallone semplice, in fondo, in cui un gruppetto di ragazzi (tutti italiani, peraltro) messo su in serie D, agli ordini di un allenatore sobrio e senza troppi grilli per la testa, riesce nell’impresa di riportare il Cerbiatto nell’Olimpo del calcio. La storia della promozione della Spal è sicuramente un esempio di ottima gestione e programmazione, ma è anche uno di quei sogni che autorizza ad amare (ancora e nonostante tutto) il calcio.