Il primo incontro del ciclo “Ri-Generazioni” di Barbadillo.it e Rubbettino, stasera, sarà dedicato proprio al tema delle carceri. Pubblichiamo, a proposito, la recensione del film dei fratelli Taviani, vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino nel 2012: pellicola girata con i detenuti del carcere di Rebibbia.
Fine pena mai. È quella che ci propinano le tv post-elettorali con svolazzi digitali e rigorosamente in HD, imbandite di ricette per il buon governo, consigli per lo spread e tutto l’infinito ciarpame post fine del mondo, comprese le pietose bugie di sempre. L’audience fagocita ancora una volta ogni cosa: elezione/erezione. Tra conduttrici e opinionisti senza idee, tra prolassi politico-istituzionali e stasi culturale, l’offerta televisiva è davvero una bestemmia al senso. La finanziarizzazione delle nostre esistenze ha ormai imposto una “no fly zone” in cui la cultura, la riflessione, l’arte sono sistematicamente ridotte ad ammennicoli inutili ed “economicamente” dannosi.
Allora ho spento tutto e ho immaginato che la Televisione di Stato, Pubblica e Democratica, Plurale e Laica, Aconfessionale e Multiculturale, trasmettesse in prima serata Cesare deve morire dei fratelli Taviani. E mi sono seduto a vederlo. Come potevamo pensare che i potentati cultural-cinematografici ammettessero una pellicola del genere alla tavola degli Oscar? Non sarebbe certo stata una questione sostanziale: ma di spostamento “estetico” troppo imbarazzante, politicamente scorretto. Come potevamo credere che almeno per un attimo quei reclusi, quei carcerati, quegli ergastolani, quei malacarne – quegli uomini comunque! – potessero entrare, seppure attraverso un film, nelle nostre vite, nei nostri week-end da ultimi acquisti con gli sconti, nelle nostre file ordinate dal macellaio e affrontassero il tema tragico della libertà e della tirannide?
Cesare deve morire è un film splendido e terribile perché ci sbatte in faccia la realtà delle carceri italiani (nessun intento naturalista, quello lasciamolo ai professionisti della doleance in tour per le prigioni nostrane) attraverso una finzione (la rappresentazione del “Giulio Cesare” di Shakespeare in quello di massima sicurezza Rebibbia). Perché ci sbatte in faccia la fragilità e la grandezza di uomini che attraverso l’arte e il teatro rimettono in gioco se stessi (la sequenza dei provini è davvero lancinante) e soprattutto rappresentano proprio le loro vite e i loro fantasmi – menzogne, agguati, tradimenti, ideali e illusioni – e attraverso i loro idiomi, i loro dialetti, il loro vissuto rappresentano quella Libertà che a loro, nella vita reale, è negata.
Anzi è grazie solo grazie al teatro che riescono ad andare oltre, rimettendo in gioco la qualità e la profondità delle loro relazioni: il ruolo sociale fugge verso quello teatrale, in un inseguimento continuo che alla fine celebra la funzione liberatoria (e libertaria) dell’arte: «Al posto di farsi la galea – li apostrofa qualcuno – fanno i buffoni». Guardiamoci allo specchi di questi uomini: forse riusciremo a scorgere – come scriveva il Bardo – anche la nostra parte nobile. Guardiamo questa potente lezione di dignità, questo cielo in bianco e nero sopra e dentro Rebibbia. No. Fine pena mai.