Nella seconda metà del Novecento giunge alla piena consapevolezza, sia in campo filosofico che artistico, la rottura che si era consumata tra uomo e natura vivente. Il secolo si era aperto con due atteggiamenti opposti e speculari: col senso panico della natura cantato da Gabriele d’Annunzio e con l’esaltazione delle macchine da parte dei Futuristi. Ma entrambi gli atteggiamenti denunciavano la stessa cosa: il filo millenario tra uomo e natura si era spezzato.
I filosofi e gli artisti hanno scritto molte pagine sul prezzo del progresso. «Apparteniamo a un’epoca la cui civiltà corre il rischio di essere distrutta dai mezzi della civiltà», aveva avvertito con tono profetico Federico Nietzsche. E lo scenario su cui si innescano i vari drammi politici, economici ed esistenziali dei nostri giorni diventa sempre più cupo col cambiamento climatico in atto e la folle crescita demografica.
«Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico»: ricordiamo il famoso incipit del saggio L’uomo a una dimensione (1964) in cui il filosofo Herbert Marcuse denunciava il carattere totalitario della società dei consumi che, manipolando i bisogni, «impone agli individui le sue esigenze economiche e politiche».
E come non ricordare L’articolo delle lucciole (1975) di Pier Paolo Pasolini? La sua suggestiva metafora esistenziale? «Nei primi anni Sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più».
Ma già negli anni Trenta del Novecento, ben prima di Marcuse e della scuola di Francoforte, pensatori di diverso orientamento dicevano le stesse cose in modo incisivo con un linguaggio più diretto e meno farraginoso. Ci limitiamo a citare René Guenon con La crisi del mondo moderno (1927) e Julius Evola con Rivolta contro il mondo moderno (1934).
Tra gli artisti che meglio hanno colto il processo in atto con le sue tendenza distruttive spicca Michelangelo Antonioni con quella magnifica pellicola che è Deserto rosso (1964), interpretato da una straordinaria Monica Vitti nei panni di Giuliana.
La pellicola esprime l’altra faccia dell’Italia del miracolo economico, con i fumi che avvelenano l’aria e i rifiuti che deturpano ogni angolo delle città e ci scavano dentro l’anima. Il male di vivere della moderna civiltà industriale colpisce sia la classe borghese che la classe operaia (il marxismo è mandato in soffitta!). Siamo tutti consumatori di massa. Siamo tutti coinvolti e nessun mondo diverso è possibile, finché si resta nella dimensione del “più produrre più consumare”.
La pellicola non chiude completamente alla speranza. La salvezza potrebbe avvenire da un ritorno all’infanzia (dell’umanità), come pare suggerire il regista nella favola che Giuliana racconta al suo bambino, mentre scorrono le immagini incantevoli della spiaggia rosa di Budelli in Sardegna nell’arcipelago della Maddalena. La favola è quella di una bambina che stava sempre da sola su di una spiaggia deserta tra gli animali selvatici, lontana da tutti i ragazzi della sua età, che «non le piacevano, perché giocavano ai grandi».
Ecco, non giocare più ai grandi! Il punto di partenza non può che essere una presa di coscienza individuale, un atteggiamento verso la natura vivente fatto di umiltà e gratitudine. Poi, per cambiare rotta, bisognerà unire gli sforzi, senza pregiudizi ideologici, e condurre una lunga tenace lotta contro l’industrialismo e il materialismo. Riusciremo prima che sia troppo tardi?