Coliandro, si dice, non Cogliandro! Questo il nome dell’ispettore più imbranato e politicamente scorretto del piccolo schermo, quello di Mamma Rai, Rai 2 per l’esattezza. Nato dalla penna tutta noir di Carlo Lucarelli, e diretto con sensibilità tarantiniana da Manetti Bros, Coliandro ha fin dalla sua prima apparizione, avvenuta nel 2006, raccolto i consensi e l’apprezzamento d’un pubblico stanco dei soliti investigatori dal taglio americano caratterizzati da stili e personalità estranei al gusto e alla sensibilità di tanti italiani. Ottimamente interpretato da Gianpaolo Morelli (che sembra nato per la parte) l’improbabile e politicamente scorretto ispettore della mobile bolognese (retrocesso all’ufficio scomparsi), – lui che trasuda uno spassoso misto di luoghi comuni e pregiudizi – , rappresenta – a nostro modo di vedere – , molto di più di quanto appaia ad un primo sguardo. La serie, godibilissima, è costruita su un modello (fedele a se stesso), in cui il nostro eroe si trova, suo malgrado, e spesso inconsapevolmente, immischiato in azioni criminali, in apparenza, al di fuori delle sue capacità, ma che poi in modo fortunoso, ma non troppo, riesce a sventare. Ricco di riferimenti fumettistici (basti pensare ai curiosi effetti sonori), e cinematografici che vanno: dagli spaghetti western, alla commedia italiana anni settanta, fino alle mitiche interpretazioni di Clint Eastwood, il telefilm si discosta in modo significativo da altre produzioni congeneri.
Coliandro è un antieroe italiano dal tratto marcatamente ironico, una sorta di ragazzone cresciuto a forza di Tex Willer e pellicole come Una 44 magnum per l’ispettore Callaghan, un ingenuo che vuol fare il furbo, un timido che cerca d’apparire spavaldo. In sostanza, questo poliziotto dal cuore tenero, ma dal destro fulminante, che racchiude in se vizi e virtù d’una certa Italia, quella portata in scena in modo superlativo ne La grande guerra, o rappresentata da icone quali Totò o l’Albertone nazionale. E non bisogna dimenticare film polizieschi come Delitto al ristorante cinese (1981), interpretato da Tomas Milian, o l’Ispettore Lo Gatto (1986) impersonato da Lino Banfi, autentici miti cinematografici d’una intera generazione. Coliandro è perciò la summa d’un modo di fare televisione dalle radici insospettabilmente profonde.
Certo la serie presenta luci e ombre: non sempre la sceneggiatura è esente da ingenuità, finali prevedibili e palesi rifacimenti a soggetti noti se non notissimi, e talora il tratto grottesco risulta un po’ esagerato sfiorando il Kitsch.
Un altro elemento peculiare risiedere nel citazionismo (ma questo non è un difetto) che è onnipresente, che va dal succitato Callaghan, alla cinematografia di Sergio Leone, fino ad approdare al cinema di John Woo e a quello di Tarantino. Elementi questi che caratterizzano anche questa nuova serie, la quinta, che approda dal 15 gennaio al 19 febbraio, in prima serata, sulla seconda rete Rai, e che promette di eguagliare il successo delle precedenti. Ma uno dei segreti del successo di questo telefilm è la facilità con cui parla ai telespettatori. Infatti, sebbene rivolto ad un pubblico eterogeneo, usa un linguaggio apparentemente giovanile, ma che in realtà è figlio d’un costume, d’un immaginario e d’una consuetudine gergale tipici degli anni settanta e ottanta. Un linguaggio che però è perfettamente fruibile e comprensibile da tutti. Coliandro è così: irriverente, scanzonato, guascone e un po’ imbranato. Ed è per questo che piace, perché ci ricorda come siamo fatti noi italiani: un popolo di poeti di artisti di eroi, e di… ispettori.