I tifosi del Toro si si sentono differenti dagli altri e per molti versi lo sono. Non solo per una certa vocazione al fachirismo (copyright Gian Paolo Ormezzano) e per la tendenza a sentirsi, a seconda delle circostanze, degli eletti o dei dannati nel mondo del pallone. Il tifoso del Toro è abituato a un approccio totalitario con la squadra del cuore, nel senso che sono ben pochi i simpatizzanti o sostenitori tiepidi: in genere il coinvolgimento è a tutto tondo, con risultati che talvolta possono persino essere controproducenti, perché spingono all’esaltazione eccessiva o all’esagerato abbattimento.
Non è un’esclusiva della tifoseria granata, è ovvio. Ma a Torino e dintorni il cortocircuito dei sentimenti è una costante da decenni, forse dal 4 maggio del 1949, data infausta della tragedia di Superga. Inoltre il tifoso granata ha un forte senso dell’identità e dell’appartenenza, poiché spesso la fede calcistica viene tramandata di padre in figlio, da nonno a nipote, ed ha una forte connotazione territoriale radicata a Torino e nelle province piemontesi. Ma c’è un’altra figura di tifoso che raccoglie l’ammirazione incondizionata del popolo granata, ed è il tifoso a distanza.
Il Torino ha tifosi in tutta Italia, ma oggettivamente non può competere con club più grandi, vincenti e universali come quelli con le maglie a strisce (di vario colore, ma c’è sempre di mezzo il nero), con il Napoli (che ha tifosi emigrati in ogni angolo dello Stivale). Eppure esistono club nei posti più impensabili, compresa la lontanissima (da Torino) Sicilia. E quando il tifoso granata torinese o piemontese incontra il tifoso granata siciliano, lucano, romagnolo o abruzzese, ha sempre l’impressione di trovarsi dinanzi a un’eroica sentinella posta a difesa di un lontano avamposto in terra nemica. Un fratello che soffre ancor di più il “fachirismo” di tifare per una squadra che vince poco o niente, che si sobbarca lunghe e faticose trasferte per vedere giocare i propri beniamini, che deve combattere quotidianamente (e in solitudine) contro la marea montante degli strisciati milionari nel proprio luogo di residenza.
Ecco, è a questi tifosi che il giornalista toscano Alessandro Tabarrani dedica il suo La scelta granata, pubblicato da Eclettica Edizioni (12 euro), che ha un esplicito sottotitolo: «Il tifoso del Toro: psicodramma di un amore». Tabarrani è nato a Viareggio nel 1976, l’anno dell’ultimo scudetto, e nel suo volume racconta appunto sentimenti e frustrazioni del tifoso a distanza in una terra di confine non così lontana da Torino, dove sono attivi da molti decenni i Toro Club Apuania e Versilia, Pontremoli e Golfo dei Poeti di La Spezia.
Una terra che fra l’altro negli anni Ottanta e Novanta ha dato al Toro alcuni giocatori importanti: Fabrizio Lorieri, Giovanni Francini, Roberto Mussi e Dante Bertoneri, forse il più talentuoso e maledetto tra i “figli del Filadelfia”, che purtroppo si è bruciato in fretta anche per ragioni extracalcistiche.
In La scelta granata Tabarrani lancia un messaggio un po’ autobiografico e un po’ provocatorio: ora che ha ritrovato una certa stabilità in serie A la tifoseria granata deve abbandonare la mentalità quasi provinciale che ha dovuto assumere nei quasi vent’anni di attraversamento del deserto, quando i campionati di B sono stati più numerosi di quelli in massima serie. «Non dobbiamo dimenticare – dice l’autore – di essere custodi di una storia unica da difendere a ogni costo. E neppure dimenticare le radici di una scelta come quella di essere granata».