Alla morte di Luciano Re Cecconi nessuno s’è ancora rassegnato. Troppo assurda, incredibile. Cose del genere, fino al gennaio del 1977, succedevano solo in America dove – col malcelato complesso di superiorità del nobile decaduto che dipende dalle elargizioni di Trimalcione – l’immaginario collocava il post modernismo del giustiziere della notte, dei reduci presi a sputazzate e dei cavernicoli grassoni ghiotti di hotdog.
Luciano Re Cecconi era una delle mille anime della Lazio di Tommaso Maestrelli. Più che una squadra, una storia che è una saga. Quella che narra, per esempio, delle pistole dei tiri a segno in ritiro. Delle botte e delle rivalità tra i semidèi dello spogliatoio, la squadra di Giorgione Chinaglia e Pino Wilson. Indomabile ma squadra, appunto, solo di domenica e solo per rispetto a Maestrelli. Un gruppaccio di gente senza regole, di quella che non può piacere a coloro che si ritengono professori di ben vivere e ottimo pensare. Personaggi che potevano essere cantati solo dalla voce graffiante e disperata di un innamorato biancoceleste quale è stato il grande Aldo Donati, scomparso poco più di un anno fa.
Re Cecconi, nato lumbard e cresciuto biondo, era un ragazzo serio che fin quando non ebbe la certezza che il calcio poteva essere il suo lavoro esercitò il mestiere di carrozziere. Arrivava dalla gavetta, mediano corsa e millimetri che si sgrezzò nella vecchia gloriosa Pro Patria e poi giunse al Foggia ambizioso dei primi anni ’70. Quindi arrivò la Lazio. Da cui non andrà più via. Polmoni immensi, piedi buoni e un cuore grandissimo, per lui fu naturale sbarcare in nazionale.
Sposato con un bimbo e un altro in arrivo. Triste, perchè s’era infortunato anche se sperava di tornare subito in campo. Era un ragazzo con la testa sulle spalle, Re Cecconi. E perciò l’annuncio che insanguinò il 18 gennaio del 1977 trasformò la pioggia che batteva su Roma in un Tevere di bionde lacrime. Si parlò di una tragica rapina finita nel sangue, con lui – Saeta Rubia laziale – sfortunata vittima dell’ondata di violenza sulle strade della capitale, che tanta linfa darà agli aedi del cinema poliziottesco. Era con due compagni, sotto choc. Invece, quello che davvero era accaduto era ancora più tragico.
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La versione ufficiale parla di rapinatori che intimano al gioielliere romano di consegnar subito denari e preziosi. Al che l’uomo, esasperato dai continui assalti subiti dal suo negozio, estrae la pistola e mira al cuore del biondo. Che un criminale non lo è mai stato e che ebbe solo la sventura di vestirsi da buontempone che voleva scherzare con le coronarie dell’orefice. Morire per uno scherzo, il destino infame che toccò a Re Cecconi. Il gioielliere, che subì il processo, venne assolto per legittima difesa putativa e cioè i giudici riconobbero al negoziante di aver agito spinto dalla necessità di salvare sè e i propri averi.
Su questa versione processuale e giudiziaria sono sorti, negli anni, numerosi dubbi. La morte di Re Cecconi è stata così assurda da risultare, per molti, non credibile nella sua tragica semplicità. Diverse inchieste giornalistiche e alcuni libri hanno confutato la ricostruzione dei magistrati. Quello che rimane è scolpito nei cuori e sulle bandiere di tutti i laziali siano di vecchia, nuova e nuovissima generazione. Un simbolo di un altro calcio e una testimonianza, tragica, di un’esistenza bruscamente interrotta per scherzo, per rabbia.